“Abbiamo bisogno di una pausa”. Spesso, nel passato, Joe Biden si è lasciato andare a dichiarazioni improvvisate e non concordate con i suoi collaboratori. Quanto successo a un evento elettorale a Minneapolis è però particolarmente significato. Una donna lo ha interrotto mentre parlava dal palco. “Come rabbina, ti chiedo il cessate il fuoco a Gaza”, gli ha urlato. Gli agenti del Secret Service sono intervenuti e l’hanno portata via (in effetti la contestatrice si è poi rivelata una rabbina, Jessica Rosenberg). Biden ha però trovato il tempo di risponderle. “Abbiamo bisogno di una pausa”, ha appunto detto. Poco dopo, ai giornalisti, il presidente Usa ha cercato di precisare la sua posizione, dicendo che parlava di una “pausa per facilitare la liberazione degli ostaggi”. E la Casa Bianca si è affrettata a spiegare che “la posizione del presidente non è cambiata”. Al di là delle dichiarazioni ufficiali, la posizione di Biden è invece sensibilmente cambiata. Mai prima, in modo così esplicito, Biden aveva chiesto una pausa umanitaria. Mai prima, con questa evidenza, le sue posizioni sul conflitto a Gaza si erano differenziate da quelle di Israele che è, invece, contrario a qualsiasi possibilità di “pausa umanitaria”. E oggi, la “proposta per una pausa umanitaria temporanea di 12 ore, rinnovabile, in cambio del rilascio della maggior parte dei ostaggi stranieri” in mano a Hamas” sarà al centro dell’incontro tra il segretario di Stato americano Antony Blinken, atterrato stamani a Tel Aviv, e Benyamin Netanyahu.

Di fronte ai numeri del massacro palestinese, preoccupato dall’esplosione di tensioni interne agli Stati Uniti, in difficoltà nella prossima campagna per le Presidenziali, Joe Biden è del resto costretto a rivedere la sua posizione di appoggio totale all’offensiva militare israeliana. Le parole a Minneapolis non sono del resto isolate, ma arrivano nel mezzo di un sensibile e complessivo cambiamento di tono da parte dell’amministrazione. Sono state soprattutto due, negli ultimi giorni, le dichiarazioni significative. La prima è quella di John Kirby, portavoce del Consiglio alla Sicurezza Nazionale, sul fatto che “gli Stati Uniti in questo momento non appoggiano un cessate il fuoco”, bensì una serie di “pause” per permettere che gli aiuti umanitari entrino a Gaza. Il governo israeliano è su una posizione diversa: contrario a qualsiasi interruzione delle operazioni di guerra. Ancora più esplicito Jake Sullivan, consigliere alla sicurezza nazionale, che a Face the Nation di CBS ha detto che l’uso da parte di Hamas degli ospedali “crea problemi ulteriori all’esercito israeliano”. Sullivan ha però anche ricordato che gli ospedali in nessun modo devono essere considerati “obiettivi militari legittimi”. In altre parole: gli ospedali non vanno bombardati, anche se Hamas li usa come scudi di protezione per i suoi militanti e dirigenti.

Il consigliere alla sicurezza nazionale ha aggiunto un’altra cosa interessante. E cioè che gli Stati Uniti continueranno a spingere Israele alla moderazione. “È ciò che avviene molte volte al giorno, nelle conversazioni tra il presidente e il primo ministro Netanyahu – ha detto Sullivan – Siamo per la santità della vita umana. Continueremo a fornire i nostri consigli a Israele in privato”. La frase è interessante perché rivela che, ormai da settimane, Biden e altri alti rappresentanti dell’amministrazione americana stanno chiedendo a Israele, in privato, di moderare la propria reazione militare. Ora queste richieste emergono alla luce del sole, senza paura di irritare l’alleato.

Subito dopo il massacro di 1.400 israeliani commesso da Hamas, l’appoggio di Biden a Israele è stato totale. “Ho detto a Netanyahu che se gli Stati Uniti avessero subito ciò che ha subito Israele la nostra risposta sarebbe stata veloce, decisiva, schiacciante”, ha detto il 10 ottobre. La visita in Israele del presidente americano è sembrata confermare questo appoggio incondizionato. Ma già sul volo che lo riportava a Washington da Tel Aviv, Biden spiegava ai giornalisti che “se Israele ha la possibilità di alleviare la sofferenza della gente di Gaza, deve farlo. Punto”. A una raccolta fondi per i democratici, il 14 ottobre, Biden ha anche ricordato che “la stragrande maggioranza degli abitanti di Gaza non ha niente a che fare con Hamas. Loro sono le vittime di Hamas”. Ancora più esplicito lo è stato quando ha messo in guardia sul fatto che “gli aiuti non entrano a Gaza con la rapidità necessaria”.

È probabile, come dice ora esplicitamente Jake Sullivan, che molte delle richieste di “moderazione” di Biden a Netanyahu siano avvenute “nel privato”. Fin dal suo incontro, a inizi anni Settanta, con Golda Meir, il presidente americano è stato un infaticabile sostenitore dell’alleanza con Israele. I suoi rapporti con Netanyahu non sono mai stati particolarmente cordiali – soprattutto negli ultimi mesi, di fronte alla riforma del sistema giudiziario voluta dalla destra israeliana. Ma Biden, a differenza del suo predecessore Barack Obama, non ha mai apertamente rotto con il primo ministro israeliano e ha sempre ritenuto che l’alleanza storica tra Stati Uniti e Israele vada ben oltre temporanee differenze personali. Biden è stato però anche convinto di un’altra cosa: mantenere buoni rapporti pubblici con Gerusalemme può garantire agli Stati Uniti maggiori e più efficaci capacità di pressione su Gerusalemme.

È quello che Biden ha fatto per buona parte di questa crisi. Ha espresso pubblicamente il proprio incondizionato sostegno a Israele. Nel privato è intervenuto per moderare l’azione di Israele. Come hanno fatto sapere fonti dell’amministrazione, è stato proprio Biden a premere su Netanyahu per rimandare l’offensiva di terra e dare più tempo alla trattativa sugli ostaggi. Contemporaneamente, Biden ha mandato avanti alcuni dei suoi principali collaboratori per mettere paletti e dare una direzione all’azione israeliana. Ecco quindi che all’Onu il segretario di Stato Antony Blinken ha affermato che “il modo in cui Israele esercita il suo diritto alla difesa conta”. Ecco quindi il capo del Pentagono, Lloyd Austin, che durante una visita in Israele ha messo apertamente in guardia sulla difficoltà di smantellare la rete militare di Hamas e ha chiesto quali siano i piani israeliani per il dopoguerra. Ecco infine ancora Jake Sullivan che ha ricordato a Israele che la guerra di queste settimane non cancella quello che per gli Stati Uniti resta l’obiettivo finale del conflitto israelo-palestinese: la soluzione dei due Stati.

Sono obiezioni che il governo israeliano ha accolto con un certo fastidio. Ancora fonti dell’amministrazione fanno sapere che da parte israeliana si sono ricordate agli Stati Uniti le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki e i devastanti bombardamenti alleati su Germania e Italia durante la Seconda Guerra Mondiale. Ma tant’è. Nell’insieme, la strategia americana sinora si è mantenuta su due binari. Una diplomazia pubblica di (quasi) totale appoggio. Una diplomazia privata di contenimento. Il problema è che ora questa strategia non funziona più. La situazione in Medio Oriente è al punto di rottura. Egitto, Arabia Saudita, Qatar hanno esplicitamente avvertito il Dipartimento di Stato che un’invasione di terra israeliana, con un ulteriore massacro di civili, potrebbe avere effetti destabilizzanti sull’intera regione. La possibilità di un riavvicinamento tra Arabia Saudita e Israele, perseguito per mesi da questa amministrazione, si è intanto dissolta. E all’Onu gli Stati Uniti hanno sempre più difficoltà a tenere a bada decine di Paesi alleati che contestano in modo sempre più aperto l’assedio cui Israele ha costretto la gente di Gaza.

Washington è insomma sempre più isolata sul piano internazionale, schiacciata su un’offensiva israeliana che ha già fatto 8mila morti. Per gli Stati Uniti non c’è solo l’imbarazzo internazionale. È la situazione interna a farsi sempre più tesa. Aggressioni fisiche e verbali, accuse velenose, boicottaggi sono all’ordine del giorno. Alcuni giorni fa un gruppo di studenti ebrei della New York University ha dovuto rifugiarsi nella biblioteca dell’università per sfuggire a una folla di dimostranti pro-Palestina (e ora proprio gli studenti ebrei chiedono le dimissioni del preside). In un’altra università dello Stato di New York, Cornell, si è dovuto ricorrere a misure straordinarie di sicurezza attorno al Center for Jewish Living, il cui personale è oggetto di ripetute minacce di morte. Non sono episodi isolati. Non c’è praticamente college o università americana che non sia travolta da proteste e opposti estremismi.

Anche il quadro politico Usa riflette le tensioni di questi giorni. Diverse organizzazioni di arabi e musulmani hanno chiesto ai loro membri di non finanziare la campagna elettorale di Joe Biden, fino a quando non sarà dichiarato il cessate il fuoco. Il National Muslim Democratic Council, essenziale nella mobilitazione elettorale in Stati chiave come il Michigan, la Pennsylvania, l’Ohio, ha mandato all’amministrazione lo stesso messaggio. “No ceasefire in Gaza. No votes”, senza il cessate il fuoco a Gaza, scordatevi il voto dei musulmani. Dall’altra parte dello spettro politico, i repubblicani utilizzano il conflitto per mettere in difficoltà l’amministrazione. Alcuni Repubblicani della Camera hanno introdotto un progetto di legge, “The Gaza Act”, che impedisce ai cittadini palestinesi di entrare, anche come profughi, nel territorio degli Stati Uniti. I firmatari della legge giustificano la richiesta con il rischio che militanti di Hamas possano introdursi nel Paese e organizzare attentati. È un’ipotesi improbabile. I civili palestinesi non possono uscire dalla Striscia. Impossibile che riescano a raggiungere gli Stati Uniti. Ma riattizzare i timori sul terrorismo islamico potrebbe rivelarsi fruttuoso, da un punto di vista politico ed elettorale.

Sono quindi diversi gli elementi che ormai si frappongono alla strategia dell’amministrazione Biden. Così si spiegherebbero le sue parole a Minneapolis – e così si spiegherebbero le dichiarazioni recenti di diversi esponenti del governo Usa. Nel momento in cui si scatena l’offensiva di terra israeliana, questo cambiamento di tono potrebbe però essere troppo timido. E in ritardo, rispetto alla gravità inarrestabile degli eventi.

(aggiornato alle ore 11.13 del 3 novembre 2023)

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