Il clima di fondo era quello di una caccia ai dipendenti pubblici, specialmente dopo le inchieste penali sull’assenteismo sparse per il Paese. Il risultato, però, è stato un altro pasticcio: una norma illegittima, l’ennesima. Ieri, infatti, il Tar del Lazio ha bocciato un altro pezzo della riforma della pubblica amministrazione approvata nel 2017, targata Marianna Madia. Nello specifico, il decreto ministeriale che penalizza i lavoratori pubblici nelle visite per malattia, in quanto li costringe a restare reperibili per ben sette ore nei giorni di assenza. Questo, considerando che per i dipendenti privati le ore si fermano a quattro, è un’ingiusta discriminazione. Ecco perché il tribunale amministrativo ha deciso così.
Vediamo quindi che cosa prevede oggi la normativa. Se un lavoratore di un’azienda privata resta a casa per problemi di salute, deve farsi trovare per la visita fiscale in due fasce orarie: dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19. Ben più ampie quelle dei lavoratori pubblici: dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 18. Quasi il doppio delle ore, insomma. Secondo il Tar, questa è una violazione dell’articolo 3 della Costituzione, il principio di uguaglianza. Ma c’è anche un aspetto che intacca l’articolo 32, cioè la tutela della salute, perché quella previsione sembra tesa a voler disincentivare le assenze per malattia.
Quella fascia di reperibilità, come detta, dipende da un decreto ministeriale approvato durante il governo Gentiloni, quando la titolare della Pubblica amministrazione era Marianna Madia. Bisogna specificare un aspetto: anche prima del 2017 le norme erano penalizzanti per il settore pubblico, tuttavia il decreto Madia si poneva l’obiettivo proprio di armonizzare le regole. Ma non lo ha fatto, e il motivo è soprattutto politico. La legge delega di riforma della pubblica amministrazione, infatti, è arrivata ad agosto del 2015, e ha avuto il via libera dal Consiglio dei ministri guidato da Matteo Renzi.
Due mesi dopo, a ottobre 2015, fece molto scalpore l’immagine di un vigile urbano di Sanremo che timbrava il cartellino in mutande, circostanza che fece scaturire un’inchiesta penale (poi finita con l’assoluzione dell’agente). In quei giorni, Matteo Renzi giurò guerra ai furbetti del cartellino: “Questa è gente da licenziare in 48 ore – disse – è una questione di dignità”. Ecco perché anche le norme di dettaglio sono state dettate da quella impostazione. Quindi, muovendo dalla convinzione per cui un dipendente pubblico sia più incline alle assenze per falsa malattia, il governo non ha ridotto le fasce di reperibilità per i dipendenti pubblici, cosa che pure andava fatta per non incorrere in una bocciatura come poi è avvenuta.
“La mancata armonizzazione – dice il Tar – ha altresì determinato una disparità di trattamento tra settore pubblico e settore privato, a parere del Collegio, del tutto ingiustificata, considerato che un evento come la malattia non può essere trattato diversamente a seconda del rapporto di lavoro intrattenuto dal personale che ne viene colpito. Ne è quindi derivata la violazione dell’articolo 3 Costituzione, non essendo rispettato il principio di uguaglianza”. “Il mantenimento delle differenziate fasce orarie, con una durata complessiva, per il settore pubblico, quasi doppia rispetto a quella del settore privato (7 ore a fronte di 4 nell’arco di una giornata) è indicativo anche di uno sviamento di potere”.
Secondo il governo, serviva a rendere più “incisivi” i controlli. Questo, secondo i giudici amministrativi, “è una dimostrazione del fatto che si parte dall’idea che per il settore pubblico servano controlli rafforzati. Tali controlli ripetuti, associati ad una restrizione delle ipotesi di esclusione dall’obbligo di rispettarle, sembrano piuttosto diretti a dissuadere dal ricorso al congedo per malattia, in contrasto con la tutela sancita dalla Carta costituzionale dall’articolo 32”. Il Fatto Quotidiano ha provato, senza riuscirci, a ottenere un commento sulla sentenza da parte dell’ex ministra Marianna Madia.