Da protagonista delle crisi ad automa teleguidato, da garante delle istituzioni a guardiano di un programma politico. “Abbiamo deciso di non toccare le competenze del presidente della Repubblica“, ha detto la premier Giorgia Meloni presentando in conferenza stampa il ddl costituzionale sul cosiddetto “premierato” approvato venerdì in Consiglio dei ministri. Una falsità, o meglio una truffa delle etichette: pur tenendole in piedi nella forma, infatti, il testo firmato dalla ministra Elisabetta Casellati svuota le prerogative del Quirinale nell’ambito della crisi e della formazione del governo, irregimentandole in percorsi obbligati e senza margini di autonomia. “Di fatto scompare uno dei poteri più ampi e multiformi, capace di svilupparsi in una direzione o nell’altra a seconda delle situazioni politiche. I paletti imposti sono talmente rigidi che il ruolo del capo dello Stato è in pratica annichilito“, commenta al fattoquotidiano.it Roberta Calvano, professoressa ordinaria di Diritto costituzionale all’Unitelma Sapienza di Roma. “Mi sembra che ci sia un eccessivo irrigidimento della forma di governo sulla figura del premier, rispetto al totale ridimensionamento del capo dello Stato e delle Camere”, riassume.
Le mosse obbligate del Colle: nella formazione del governo… – Calvano individua cinque nuovi vincoli insuperabili che il ddl impone all’azione del Colle. “Il primo riguarda la scelta del capo del governo: dovrà nominare necessariamente il candidato della coalizione vincente alle elezioni e non avrà più – nemmeno formalmente – il potere di decidere”. E le consultazioni, che il presidente della Repubblica tiene in base alla prassi costituzionale per verificare l’esistenza di una maggioranza? “Direi che si possono considerare superflue, essendo l’esito obbligato”, afferma la docente. “Il secondo vincolo”, prosegue, “scatta se il premier incaricato non ottiene la fiducia delle Camere: il capo dello Stato non potrà affidare l’incarico a un soggetto diverso, ma dovrà reincaricare il vincitore delle elezioni per un secondo tentativo”. E se anche quello va a vuoto? Pure qui la via d’uscita è preimpostata: “Il presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere”, recita il nuovo testo dell’articolo 94, terzo comma. E siamo al terzo vincolo.
…e nella crisi – Gli ultimi due riguardano invece la fase della crisi di governo. Se il presidente del Consiglio viene sfiduciato o si dimette, non ci saranno più consultazioni né trattative né retroscena politici sul futuro esecutivo: il capo dello Stato potrà solo terminare la legislatura o affidare l’incarico allo stesso premier dimissionario, o in alternativa “a un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al presidente eletto”. È la famosa “norma anti-ribaltone“, pensata per cancellare l’eventualità di governi tecnici o “di unità nazionale” (come gli esecutivi Monti e Draghi), o ancora sostenuti da maggioranze di orientamento opposto a quella uscente (come il Conte II). Per rafforzarla, si prevede inoltre che il nuovo premier debba “attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il governo del presidente eletto ha ottenuto la fiducia”. Una clausola che la premier Meloni ha commentato con parole piuttosto significative: “Nel momento in cui il programma di governo entra in Costituzione, anche il presidente della Repubblica ha un ruolo, perchè diventa incostituzionale fare qualcosa che è contraddittorio con il programma”.
Il Quirinale “garante del programma”? – Insomma, nei piani del governo il Quirinale si trasformerebbe in un notaio garante dell’indirizzo politico, “un mero esecutore di fatto subalterno al presidente del Consiglio“, osserva la costituzionalista. Che avverte: “Imporre un obbligo di fedeltà al programma significa comprimere il libero mandato parlamentare. Deputati e senatori non potranno cambiare idea sulle priorità del Paese senza per questo suicidarsi, cioè causare lo scioglimento obbligato delle Camere. Inoltre, pensare di blindare un programma rendendolo vincolante per tutta la legislatura è assurdo: vorrebbe dire congelare la realtà. Che succede se scoppia una guerra, o una catastrofe naturale, e il governo è costretto ad assumere scelte politico-economiche incoerenti con ciò che aveva annunciato? In teoria, anche solo per questo sarebbe costretto ad andare a casa”. Può anche succedere, però, che il premier o l’esponente di maggioranza alternativo incaricati dal presidente della Repubblica non riescano a ottenere la fiducia. E lì scatta il quinto vincolo: anche in questo caso, il capo dello Stato può solo prendere atto della situazione e sciogliere le Camere.
“La legge elettorale? È incostituzionale” – Altro contenuto discusso della riforma è la “costituzionalizzazione” del principio per cui la legge elettorale deve garantire al premier eletto i numeri per governare: il nuovo articolo 92 prevede che “un premio, assegnato su base nazionale, garantisca il 55 per cento dei seggi nelle Camere alle liste e ai candidati collegati al presidente del Consiglio dei ministri”. Non è specificata, però, una soglia minima di consensi che il candidato debba raggiungere per ottenere il premio. Perciò, secondo Calvano, sotto questo aspetto la riforma “si pone in contrasto con la sentenza della Consulta che nel 2014 ha dichiarato l’incostituzionalità del Porcellum (la legge elettorale approvata nel 2005 dal governo Berlusconi, ndr) perché, non prevedendo una soglia, violava il principio di eguaglianza, attribuendo ai voti della lista o della coalizione vincente un valore molto superiore a quelli degli altri”. Il testo in realtà lascia aperta la possibilità di subordinare il premio a un ballottaggio tra i due candidati più votati, ma non lo impone: “Si sarebbe potuto specificare che la legge elettorale debba prevedere un meccanismo a doppio turno. In assenza di questa previsione, a mio avviso, la norma è incostituzionale e il presidente della Repubblica dovrebbe rifiutarsi di firmarla“, afferma la professoressa. Notando, inoltre, come il premio di maggioranza attribuito su base nazionale per entrambe le Camere rischi di porsi “in contrasto con la stessa Costituzione, che afferma che il Senato viene eletto su base regionale”