“Ad rivum eundem lupus et agnus venerant, siti compulsi. Superior stabat lupus, longeque inferior agnus”. In tema di acque, il lupo milanese incolpa l’agnello brianzolo da molti secoli, invertendo le parti della favola di Esopo: “spinti dalla sete, un lupo e un agnello sono giunti allo stesso rivo. Il lupo era a monte, in alto; l’agnello a valle, assai più in basso”. In età moderna, un solo governo aveva capito la questione apparentemente banale del rivo centrale di Milano: la colpa delle fastidiose e frequenti inondazioni cittadine non è tanto e solo l’avido consumo di suolo brianzolo, quanto e anche la presunzione metropolitana. Tutti i governi hanno sempre preferito indossare la maschera del lupo che, nel periodo di Halloween, è la più seducente. A capire il Seveso fu solo il governo austriaco.
Nel Settecento infuriava la storica polemica tra chi voleva invasare le piene a monte della città e chi accettava la triste realtà: un fiume va regimato con generosità se vogliamo che attraversi una città senza fare danni. Sosteneva questa tesi uno dei maggiori esperti di idraulica dell’epoca, Giovanni Antonio Lecchi – gesuita milanese, idrografo imperiale al servizio di Maria Teresa d’Austria. L’architetto-ingegnere camerale, Dionigi Maria Ferrari, sosteneva invece la prima soluzione, lo scarico a monte delle responsabilità di valle. Seguendo la lezione del Lecchi, gli austriaci prolungarono del Redefossi, ossia il Seveso a valle della città, fino quasi a Melegnano.
Anche se il costo dell’opera era elevato (un milione di lire milanesi) l’imperatore Giuseppe II, figlio di Maria Teresa, stabilì con molto realismo che la cifra fosse comunque inferiore a quella da sborsare in occasione di una delle ricorrenti esondazioni. Dopo approfondite indagini tecniche, i lavori iniziarono nel 1783 e furono terminati in tre anni.
In età contemporanea, un solo protagonista del rosario di amministrazioni municipali, provinciali e regionali in sella dal dopoguerra a oggi, capì che cosa fosse necessario. Fu il governo cittadino capace di mettere fine alla sceneggiata delle acque reflue milanesi: fino a tutto il Novecento, le acque delle fogne milanesi venivano scaricate tal quali nei corsi d’acqua senza depurazione alcuna. E mise così fine a una vergogna italiana ed europea. “Quando Albertini era sindaco l’allora assessore all’Ambiente Domenico Zampaglione, ingegnere idraulico, aveva presentato il progetto di un canale scolmatore sotterraneo che avrebbe portato le acque del Seveso da Niguarda a Ponte Lambro. Era l’unica soluzione possibile al problema”. Parola di un deputato dalla lunga esperienza amministrativa milanese, De Corato (Il Giornale, 1° novembre 2023).
Non era la soluzione definitiva, perché sono necessari anche interventi di sistemazione idraulica a monte di Milano, possibilmente d’ingegneria naturalistica, ma si trattava della soluzione più ragionevole, efficace e, soprattutto, prioritaria. Non era una novità. Anche il Comitato Coordinatore delle Acque era giunto alla stessa conclusione nel 1940. A differenza del piano d’anteguerra, il progetto di Mimmo Zampaglione (un caro amico purtroppo vittima della pandemia) era pronto per essere messo in cantiere. E la giunta Albertini aveva forse trovato perfino modo di finanziarlo.
La memoria del parlamentare milanese sul progetto Zampaglione non è invece perfetta quando afferma che “si trattava di un’opera molto costosa”. Il costo di un’opera pubblica va confrontato con quello delle altre opere pubbliche che si mettono in cantiere, così come il beneficio. Il progetto dello scolmatore, già cantierabile, costava attorno a 70 milioni di euro, meno dei danni patiti con una sola botta alluvionale, quella del 18 settembre 2010. E, secondo la stima di Confcommercio riportata da Milano Today, gli allagamenti di Halloween del 2023 hanno già prodotto 11 milioni di danni.
Evidentemente, la capitale finanziaria del paese non è a suo agio con l’aritmetica: basta sommare i danni dal 1945 in poi. E nessuno si è mai permesso di confrontare il costo della galleria con quanto la comunità meneghina spende per collegare le nuove, molteplici, invadenti aree commerciali spuntate ovunque nel Milanesato. Senza dimenticare che la galleria drenante poteva anche limitare la inesorabile risalita della falda cittadina, il cui contenimento costa un bel po’ di quattrini ai milanesi.
Per approfondire la vicenda idraulica del Seveso, più farsa che dramma, basta leggere un libro divulgativo che pubblicai qualche anno fa. In Bombe d’acqua, alluvioni d’Italia dall’unità al terzo millennio (Marsilio, 2017) la parola Seveso è citata 40 volte. Il Seveso non è un “fiumiciattolo” o un “piccolo fiume” come lo descrivono i media, locali e nazionali; e come viene fatto percepire a milanesi e italiani. Il suo bacino idrografico, di forma particolare perché stretto e allungato, copre circa 200 chilometri quadrati all’ingresso in Milano. In concreto, il Seveso è grande poco meno del Bisenzio fiorentino, il doppio del Bisagno genovese, entrambi noti alle cronache.
La copertura cittadina del Seveso non scolma più di 40 metri cubi al secondo e il fiume esonderebbe in centro se non tracimasse prima a monte, dove la capacità sarebbe peraltro un po’ superiore. A Genova, la famigerata copertura del Bisagno, causa di enormi danni e tanti lutti dal 1945 in poi, era capace di portare quasi 600 metri cubi al secondo. Non erano mai bastati, nonostante che il progetto fosse stato siglato da una firma illustre: l’idraulico fascista ante- e post-litteram Gaudenzio Fantoli, Rettore del Politecnico di Milano. Tutti sappiamo che i nubifragi genovesi e fiorentini sono più intensi di quelli brianzoli, non tanto però da giustificare questa folle proporzione.