L’appello a bloccare il varco di San Benigno, a Genova, all’alba di venerdì 10 novembre, è solo l’ennesimo atto di una lotta, quella contro il transito di armamenti dal porto, che il Collettivo autonomo dei lavoratori portuali porta avanti da oltre cinque anni: “La catena logistica è necessaria ad alimentare i conflitti rifornendoli di armamenti e non vogliamo fare parte di questo ingranaggio”. La mobilitazione dei portuali genovesi, che oltre al sindacato di base Usb e al SiCobas trova il sostegno di diversi movimenti e associazioni pacifiste, nonviolente e umanitarie, segue analoghe proteste che in questi giorni si sono viste in Belgio e negli Stati Uniti, dove attivisti e sindacati contestano l’invio di armi verso il Medio Oriente. “La compagnia marittima Zim ha messo a disposizione la sua flotta per portare armi verso Israele – spiega Josè Nivoi, referente Mare e Porti dell’Unione sindacale di base – sappiamo che in questi giorni transiteranno di qua, mentre in banchina ci sono già armamenti destinati all’Arabia Saudita, pronti a essere imbarcati sui cargo della compagnia Bahri”.
Per i lavoratori portuali, che in questi anni si sono fatti aiutare ad approfondire la filiera degli armamenti dall’osservatorio Weapon Watch, i segni di un’escalation bellica e il conseguente aumento dei traffici e dei profitti dell’industria degli armamenti sono evidenti. “Quello a Gaza non è certo l’unico conflitto in Medio Oriente, ma indubbiamente è il più feroce e sanguinario – commenta Riccardo Rudino per il Calp – noi siamo sempre dalla parte delle popolazioni oppresse e dei civili che restano vittime di chi per motivi economici sostiene l’industria delle armi e alimenta guerre sempre più pericolose”. Imbarchi di camion militari diretti alla Tunisia per il contrasto di flussi migratori, passaggio di navi della Zim (fino a oggi cariche prevalentemente di container di uso commerciale e civile), nuovi materiali militari per l’aeronautica saudita: “Il porto di Genova continua a caratterizzarsi come snodo per la logistica di guerra – si legge nel volantino diffuso dall’Assemblea contro guerra e repressione, che insieme al Calp ha lanciato l’iniziativa – quanto sta accadendo a Gaza lo rende evidente, chi governa le nostre società ci sta portando sull’orlo della Terza Guerra mondiale, e le conseguenze indirette sono già arrivate”.
Il timore di chi organizza il presidio non è solo l’allargamento del conflitto nelle regioni vicine, ma i tagli al sociale necessari per implementare le spese belliche e l’aumento del costo delle materie prima possano continuare a colpire anche da noi, e questo a causa della scelta dei “governi occidentali” di “continuare a supportare e armare” le parti coinvolte, mentre una certa omologazione dei media scredita chi propone soluzioni diplomatiche e nonviolente, arrivando a sostenere la repressione delle proteste antimilitariste. Il riferimento particolare è al divieto, in Francia e Germania, di manifestazioni che “chiedono di fermare il massacro in Palestina” con la motivazione di possibili atti di “apologia di terrorismo”.
Nel frattempo, agli operai che lavorano al Genoa Metal Terminal, la società Steinweg avrebbe dato indicazioni in chiave “antiterroristica”. Il terminal è ritenuto “obiettivo sensibile per atti di terrorismo” dal momento che lì, da anni, approdano le navi della flotta saudita Bahri, con i loro carichi d’armamenti destinati al Medio Oriente. “La guerra è fatta anche di chi ci lucra sopra – scrivono in uno dei comunicati che lancia il presidio di protesta previsto per venerdì mattina – I porti si confermano uno snodo fondamentale per la logistica di guerra” e per questo, chi intende “mettere della sabbia negli ingranaggi della macchina bellica” si dà appuntamento ai varchi portuali.
Se esportare e consentire il transito di armamenti verso zone di guerra è vietato dalla legge 185 del 1990 e dal trattato internazionale sulle armi convenzionali, secondo il Weapon Watch “molti grandi gruppi stranieri, in particolare americani, hanno aperto filiali in Italia che a loro volta esportano materiale militare verso destinazioni terze, in maniera quanto meno opaca e difficilmente tracciabile”.