Trasferimento definitivo della popolazione di Gaza nel nord del Sinai, “spostamento” dell’Autorità Nazionale palestinese (ANP) nella Striscia, con la quale replicare il “modello” di gestione “congiunta” della Giudea e Samaria (Cisgiordania, ndr), dove l’autorità civile sarebbe in mano ai palestinesi e quella militare alle Idf, oppure promozione di una “nuova leadership palestinese”, che rimpiazzi Hamas dopo la sua distruzione. Sono queste le tre “soluzioni” per Gaza paventate in un documento elaborato alcuni giorni fa dal ministero dell’Intelligence israeliano, presieduto da Gila Gamliel, membro del Likud. Un “testo di concetto”, non vincolante, ha voluto precisare Netanyahu. Anche perché le opzioni, al momento, sarebbero un fallimento annunciato.

Sono diversi i motivi per cui tutte queste strade risultano impraticabili. La prima opzione, quella caldeggiata dal ministero, è anche quella che desta le maggiori preoccupazioni e perplessità: anzitutto per la configurazione di crimini contro l’umanità che sottenderebbe e in secondo luogo per le turbolenze regionali che potrebbe provocare. “Il messaggio (da recapitare ai palestinesi per spingerli fuori da Gaza, ndr) dovrebbe incentrarsi sulla perdita territoriale e dovrebbe chiarire che non c’è alcuna speranza che gli sfollati tornino nei territori che Israele potrebbe poi decidere di occupare o meno – si legge nel documento – E l’immagine deve ricordare loro qualcosa come ‘Allah si assicurerà che voi perdiate questa terra a causa della leadership di Hamas e non c’è scelta per voi se non quella di spostarvi altrove, con l’assistenza dei vostri fratelli musulmani'”.

L’opzione in questione configurerebbe una pulizia etnica nella Striscia – abitata già oggi da chi durante le guerre israeliane è stato costretto a ricollocarsi nei campi profughi in Libano, Siria e Giordania e nell’enclave stessa, nel cui degrado esistenziale sono poi sorti movimenti come Hamas – e ha soprattutto già incontrato l’opposizione dei possibili Paesi coinvolti. L’Egitto – che aveva inizialmente proposto in alternativa di spostare i profughi nel deserto del Negev – ha infatti già rimarcato la sua irrazionalità, se è vero che, anche ignorando i dirimenti aspetti umanitari, un trasferimento di 2,5 milioni di palestinesi di Gaza nei campi profughi del Sinai darebbe verosimilmente luogo ad attacchi verso Israele, e nello specifico l’emersione di nuovi gruppi radicali, proprio come avvenuto nei campi profughi della Striscia con la nascita di Hamas. Quanto questa possibilità irriti Il Cairo lo si era già visto alcuni giorni fa, quando MadaMasr, uno dei pochi quotidiani indipendenti rimasti nel Paese, è stato sospeso per sei mesi e denunciato al procuratore generale per “danni alla sicurezza nazionale e invenzione di notizie” proprio per aver pubblicato un report che alludeva alla possibilità di un trasferimento dei palestinesi nel Sinai.

Anche Washington, tuttavia, ha già fatto sapere in modo esplicito di essere contraria allo spostamento permanente della popolazione al di fuori della Striscia, nonostante lo stesso documento caldeggi l’idea che Tel Aviv chieda proprio agli Stati Uniti di fare pressione sul Cairo affinché accetti una simile soluzione, così come su altri paesi come la Turchia, l’Arabia Saudita e il Qatar. Si opporrebbero anche i Paesi che il documento cita come possibili futuri approdi per i rifugiati palestinesi, cioè il Canada, la Grecia e la Spagna, i cui ministri più a sinistra in questi giorni hanno definito quanto sta accadendo a Gaza come un “genocidio”.

C’è poi la seconda opzione, quella che prevederebbe di replicare il “modello Cisgiordania” attribuendo all’Anp il governo di quella Striscia di Gaza in cui vanta un radicamento residuale. Ma non è di difficile attuazione non solo per aspetti legati al consenso che l’Anp (non) ha. Il problema principale lo individua infatti lo stesso documento laddove si legge che “sarebbe complicato il mantenimento dell’occupazione militare senza il sostegno degli insediamenti coloniali”. Ciò provocherebbe il conseguente “rischio di pressioni internazionali per il ritiro delle truppe” con Israele che potrebbe in tal caso “essere considerata una potenza coloniale con un esercito occupante, in una situazione ancora peggiore di quella in Giudea e Samaria”. Anche se, secondo le Nazioni Unite, Israele è già un Paese occupante anche nella Striscia.

Infine, ci sono dei precedenti non proprio fortunati, che potrebbero essere associati anche alla terza ipotesi, cioè quella della promozione di una “nuova leadership araba” – al di fuori dell’ANP – che rilevi il potere di Hamas. Entrambe queste strade, infatti, ricordano in modo sinistro quanto realizzato dagli Stati Uniti sia in Afghanistan che in Iraq. Nel caso afghano, dopo aver scacciato i Talebani – la cui connessione col territorio può in un certo senso essere paragonata a quella di Hamas nella Striscia – Washington decise di investire sulla figura di Hamid Karzai, che poi diventò presidente dal 2004 fino al 2014, venendo anche rieletto in un processo elettorale in cui è stato accusato di brogli: sono anni in cui la corruzione nel Paese cresce a dismisura e nei quali quest’ultimo veniva definito “sindaco di Kabul”, in riferimento alla sua scarsissima popolarità al di fuori della capitale. Ancor più artificioso il mandato dell’ex presidente Ashraf Ghani che dopo una carriera negli Stati Uniti e alla Banca mondiale nel 2014 viene riconosciuto dal Comitato elettorale afghano come legittimo vincitore delle elezioni, nonostante in prima battuta fosse arrivato secondo con un notevole distacco dall’altro candidato, Abdullah Abdullah. I mandati di Karzai e Ghani sono alla base delle ragioni che hanno poi determinato il ritorno dei Talebani che hanno ripreso il potere nel 2021.

Nel caso iracheno, balza alla memoria un altro piano: quello concepito dall’allora “governatore” statunitense dell’Iraq, Lewis Paul Bremer. Questo stabilì lo smantellamento dell’Esercito iracheno, la messa al bando del partito Ba’ath in ogni sua forma (incluso il personale amministrativo e burocratico) e un artificioso trasferimento dei poteri sostanziali alla minoranza (oggi maggioranza) sciita, a lungo discriminata da Saddam Hussein. Ciò produsse quasi nell’immediato mezzo milione di disoccupati, la latitanza di migliaia di militari che poi si “ricollocheranno” anche nell’Isis qualche anno dopo, una inarrestabile insorgenza armata irachena, nonché il graduale e quasi naturale – soprattutto per via della nota diplomazia bilaterale tra i centri religiosi sciiti iracheni e iraniani – spostamento dell’Iraq “sciita” sotto la sfera di influenza dell’Iran, nemico giurato degli stessi Stati Uniti.

L’opzione di investire su una “nuova leadership araba”, diversa dall’Anp, è a dire il vero quasi “bocciata” dallo stesso documento: “Il rischio principale è l’emersione di una leadership islamista ancor più radicale di Hamas”, si legge. Per perseguire una strada simile, chiosano gli autori, “sarebbe necessario mettere in moto un cambiamento ideologico nella popolazione palestinese, attraverso un processo di denazificazione che inizi dalla decisione e dall’imposizione da parte di Israele dei curricula scolastici a beneficio di una intera generazione”.

Non è nemmeno necessario recepire le parole rilasciate alla Bbc dal politico palestinese Mustafa Barghouti che ha ricordato come Hamas sia “un movimento radicato nella popolazione, che può essere sconfitto soltanto con una totale pulizia etnica di Gaza”. Basterebbero forse quelle di Michael Milshtein, ex capo del Dipartimento per gli Affari palestinesi dell’Intelligence militare israeliana, intervistato sempre dall’emittente britannica: “Spero che i consulenti che Washington ha inviato a Tel Aviv spieghino agli israeliani i loro disastrosi errori in Iraq, in modo che i nostri non si facciano l’illusione di sradicare il partito dominante a Gaza o di cambiare la mente delle persone. Perché ciò non accadrà“.

L’esistenza del piano proposto dal ministero dell’Intelligence israeliana sottende forse una realtà più banale, evidenziata da diversi osservatori, e cioè che un reale piano per Gaza al momento non esiste. Come non ne esisteva uno percorribile in Afghanistan, occupato (al costo di 3mila miliardi di dollari) dagli Stati Uniti col fine di sconfiggere i Talebani e poi abbandonato dopo quasi vent’anni proprio nelle mani degli uomini di Hibatullah Akhunzada. E come forse non ne esisteva uno sostenibile nello stesso Iraq, oggi molto più instabile e impoverito di venti anni fa, dilaniato nel nome di quella “debaathificazione” che non solo dal punto di vista fonetico sembra far rima con la “denazificazione” immaginata dal governo di Benjamin Netanyahu.

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