Nel 2018 le foto di 15 milioni di dollari in contanti trasportati in valigette nere attraverso il valico di Erez, che separa Israele da Gaza, sono comparse su tutti i media israeliani. Ancora prima, nell’estate del 2016, il governo guidato da Benjamin Netanyahu, Naftali Bennett e Avigdor Lieberman, ha permesso ad altre valigie piene di denaro del Qatar di entrare nella Striscia, con il pretesto di sostenere progetti infrastrutturali urgenti. Con il placet di Netanyahu, dunque, il denaro qatariota arrivava nelle casse di Hamas e con esso il gruppo terroristico si armava e comprava il sostegno della popolazione ridotta nella povertà più assoluta, distribuendo il denaro agli impiegati pubblici sotto forma di stipendi, alle famiglie più bisognose sotto forma di aiuti economici e ai civili feriti e ai familiari dei morti palestinesi durante gli scontri con le forze di sicurezza israeliane sotto forma di risarcimenti. All’epoca si era già capito dove si voleva andare a parare.

Il piano di Bibi Netyanhu era semplice: consentire al Qatar di finanziare e rafforzare la presenza di Hamas a Gaza per danneggiare l’Autorità nazionale palestinese presieduta da Abu Mazen. Inoltre – almeno nei progetti del premier israeliano – ciò avrebbe dovuto contenere la violenza di Hamas e al tempo stesso si sarebbe scongiurata la soluzione “due popoli due Stati” sostenuta dalla comunità internazionale.

La risposta dell’Anp non si è fatta attendere. “Quindici milioni di dollari sono stati pagati ad Hamas – si legge in un comunicato stampa di allora – a spese del sangue palestinese e la leadership dell’organizzazione sta approfittando di questi soldi per continuare con il piano sionista-americano di separare la Striscia dalla Cisgiordania. I siti web di Hamas stanno glorificando il pagamento degli stipendi come se fosse un risultato e una vittoria, ma in pratica dimostra che la leadership dell’organizzazione è pronta a stringere un’alleanza con il diavolo per mantenere il potere nella Striscia di Gaza”.

Bibi credeva nel suo piano. Anche pochi giorni prima dell’attacco di Hamas del 7 ottobre, era convinto di essersi “comprato la tranquillità”, come ha detto Yigal Carmon, ex 007 di Israele intervistato dal Corriere della Sera. Ne era talmente convinto che il 28 settembre scorso, quindi dieci giorni prima dell’attacco di Hamas, ha disposto la riapertura proprio del valico di Erez, rimasto chiuso ai lavoratori palestinesi per quasi due settimane a causa degli scontri quasi quotidiani tra giovani palestinesi e soldati israeliani. E la scelta sarebbe stata caldamente consigliata da Egitto, Onu e dal Qatar stesso.

Ma perché Doha dovrebbe finanziare Hamas? Le motivazioni sembrano essere solo questioni di convenienza politica. Innanzitutto, il piccolo ma ricchissimo emirato riuscirebbe così a mantenere il piede in due staffe: da un lato finanzia Hamas mentre invia aiuti umanitari al popolo palestinese, dall’altro fa il gioco di Israele mantenendo in questo modo anche buoni rapporti con il suo alleato principale, gli Stati Uniti, di cui ospita sul proprio territorio la più grande base militare in Medio Oriente. Dietro il sostegno del Qatar però ci sono anche obiettivi più ad ampio raggio, che si concretizzano attraverso la facciata religiosa della vicinanza del piccolo regno ai Fratelli Musulmani, organizzazione islamista politica a cui Hamas si ispira, nonostante la Fratellanza abbia preso le distanza negli ultimi anni dal partito armato palestinese. È cosa nota che la grande accusa che viene mossa al piccolo regno anche dai suoi vicini regionali sia quella di finanziare gruppi terroristici e milizie impegnate nei conflitti locali. Il governo qatariota ha dato sostegno non solo ai Fratelli Musulmani in Paesi come la Libia, dove l’influenza di Doha ha contribuito alla situazione di stallo che perdura da decenni, ma anche agli sciiti filo-iraniani, e agli Houthi yemeniti. Un sostegno economico che si spiega con le ambizioni geopolitiche del piccolo emirato che si è sempre servito della rete internazionale dei Fratelli Musulmani per proporsi come attore regionale influente. E ora il conflitto in Palestina offre a Doha un’opportunità in più.

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