Una voce bipartisan si alza a commentare il conflitto tra Israele e Hamas: “Israele è una grande democrazia”, cui spesso si aggiunge “l’unica del Medio Oriente”. Centro-sinistra e centro-destra uniti ripetono, con intento assolutorio o quanto meno ‘contestualizzante’, che in Israele la critica a Netanyahu è libera.

Tutto vero: dall’inizio del 2023 in Israele si svolgono imponenti manifestazioni di piazza contro Netanyahu, e da sempre Israele viene criticato dai cittadini israeliani (tra cui, giova ricordarlo, ci sono gli arabi israeliani, circa il 20% della popolazione totale dello Stato), dalla sua stampa, dai suoi intellettuali. Ma è anche vero che si dispiega quello che altrove avevo definito “etnocentrismo acritico”: esso ci induce a postulare che le cose che non conosciamo non esistono.

È successo così a proposito delle Primavere arabe, descritte naturalisticamente come fenomeni improvvisi semplicemente perché l’opinione pubblica occidentale non aveva alcuna contezza di ciò che si muoveva nelle società arabe e che ha preparato quelle rivolte. Succede per la comprensione del conflitto israelo-palestinese: non conosciamo l’arabo e non sappiamo niente di quella società, allora assumiamo che la società civile lì non esista, che non vi sia una letteratura, che i palestinesi siano una sorta di monolite toto corde a favore di Hamas. Siccome leggiamo l’inglese, sappiamo che esiste Haaretz. Dal momento che non conosciamo l’arabo e non lo vogliamo conoscere, il resto non esiste.

In ogni caso, l’argomento per il quale democrazia e orrore sono incompatibili è falso. Fa leva su una logica binaria di tipo manicheo: la democrazia e lo Stato di diritto sono il Bene, ed essi non sono contaminabili dal Male. In realtà, occorre ricordare due aspetti: il primo, che non esiste un modello unico e ‘puro’ di democrazia, e che essa è un concetto astratto, uno standard di conseguimento a cui ci si può avvicinare (sempre che ci si trovi d’accordo su una definizione convenzionale e condivisa di cosa debba essere). Il rapporto osmotico tra ranghi militari ed élite politiche, per esempio, è un aspetto che caratterizza Israele ma che in altre democrazie risulterebbe quanto meno singolare.

Il secondo aspetto, più rilevante, decostruisce quella logica manichea: storicamente le democrazie e gli Stati di diritto hanno enormi capacità di adattamento selettivo che gli permettono di convivere con varie forme di esclusione e di violazione dei diritti e delle libertà. Spesso, in controluce, dietro tali discorsi su ‘democrazia’ e ‘Stato di diritto’ si legge ‘Occidente’ (e dunque ‘civiltà’), come a sottolineare il suo primato morale. Una protervia che viene criticata da chi occidentale non è. È proprio la storia dell’Occidente a segnalare quella capacità adattiva di cui si diceva: la Francia rivoluzionaria e l’esclusione dei neri, l’America dei Padri fondatori possessori di schiavi, lo sviluppo del liberalismo e la violenza brutale del colonialismo. E, per avvicinarci a noi: l’antisemitismo che ha sconvolto l’Europa, dai pogrom fino alla Shoah, è un pezzo tragico della storia della civilissima Europa.

Certo, non siamo ancora nel contesto delle liberal-democrazie costituzionali post-belliche, ma anche in queste convivono o hanno convissuto pesanti forme di esclusione. Le periodiche recrudescenze dello stesso antisemitismo segnalano la convivenza, sul suolo europeo, di libertà ed esclusione. Si potrebbe continuare, ma il senso è chiaro: la democrazia può convivere con la violazione dei diritti per alcune categorie di persone sia all’interno che all’esterno del territorio di uno Stato. Si obietterà che è meglio comunque nascere in un regime politico democratico, per quanto imperfetto, che in uno non democratico, e che non si prendono lezioni da regimi che di democratico hanno poco: sempre meglio la democrazia imperfetta di Israele che il regime teocratico iraniano. Non c’è dubbio, a patto che si possa scegliere da che parte si nasce, con quale pelle, con quale nome, di quale genere, di che confessione.

Alcuni commentatori occidentali sostengono “se fossimo in Medio Oriente, noi saremmo israeliani”, sottintendendo la parentela di Israele con la civiltà occidentale, la loro somiglianza con noi, e dunque il giudizio positivo su di loro come specchio di quello su noi stessi. Ma anche qui, occorre aggiungere: saremmo israeliani se sapessimo di essere cittadini pleno iure di quello Stato. Saremmo più contenti di essere israeliani potendo godere della sua democrazia, delle sue libertà, della sua libera stampa.

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