Una cinquantina di alti gradi di Hamas uccisi a fronte di 10mila morti nella Striscia di Gaza, secondo le autorità locali, e una crisi umanitaria senza precedenti. A un mese dal sanguinoso attacco del movimento islamista palestinese nel quale sono stati massacrati 1.400 ebrei e circa 240 sono stati presi in ostaggio, sono questi i numeri della campagna militare di Tel Aviv nell’enclave palestinese. La più sanguinosa della sua storia.

Ma non bastano i dati a descrivere l’esito temporaneo dell’operazione Spade di ferro che nelle dichiarazioni del governo e degli alti vertici militari dovrebbe “sradicare Hamas” dalla Striscia e liberare quindi quel fazzoletto di terra palestinese, circondato (e occupato) da Israele, dall’estremismo che minaccia la sicurezza del cosiddetto ‘Stato ebraico’. Certo, il rapporto di 200 morti civili per ogni terrorista di alto rango ucciso non può certo essere considerato un successo per l’esercito israeliano, ma gli stravolgimenti in campo internazionale provocati dall’operazione militare rendono necessario allargare lo sguardo per fare un primo bilancio.

Innanzitutto, la testa del serpente da schiacciare, la mente dietro al peggiore massacro di ebrei dai tempi dell’Olocausto, ossia il leader di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar, rimane in libertà. Nel frattempo, la solidarietà manifestata nei confronti di Israele dopo l’attacco compiuto dagli islamisti nei confronti di civili inermi ha gradualmente lasciato il posto a diverse critiche per la sproporzione della risposta militare, trasformatasi in quella che molti governi mondiali, organizzazioni internazionali e ampie fette della società civile non hanno esitato a definire una “punizione collettiva”. Insomma, un crimine di guerra. Il sostegno al governo israeliano non è certo mancato, anche dal punto di vista delle forniture militari, dall’alleato statunitense. Ma Washington ha comunque lanciato avvertimenti alla leadership di Tel Aviv. Ci sono state ad esempio le manovre per ritardare l’invasione di terra a Gaza, ma anche l’avvertimento pubblico di Joe Biden nel corso del suo bilaterale con Netanyahu: “Non commettete i nostri stessi errori dell’11 settembre per colpa della rabbia“.

Avvertimento ad oggi inascoltato. Israele, lo dimostrano i numeri, si è mosso spinto dal sentimento di vendetta più che di giustizia, con le sue bombe che non hanno risparmiato centri densamente popolati, campi profughi, ospedali e scuole. Così, salvo gli Usa e la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, fortemente criticata per questo da altri rappresentanti a Bruxelles, il pieno sostegno dei Paesi amici si è via via trasformato in solidarietà, ma “nel rispetto dei diritti umani e dei trattati internazionali”. Un richiamo ripetuto innanzitutto dalle Nazioni Unite, con il segretario generale Antonio Guterres che, pur condannando la carneficina di Hamas, non ha fatto mistero dello sdegno per alcune delle azioni compiute dall’esercito israeliano a Gaza: si è detto “inorridito dai raid sulle ambulanze”, ricordando che “gli attacchi di Hamas non vengono dal nulla”, in riferimento ai 56 anni di occupazione illegale dei territori palestinesi, compresa la Striscia di Gaza. E ha rincarato la dose dicendo che “Gaza sta diventando un cimitero per i bambini, in quattro settimane sono stati uccisi più giornalisti che in qualsiasi conflitto in almeno tre decenni e sono stati uccisi più operatori umanitari delle Nazioni Unite che in qualsiasi periodo paragonabile nella storia della nostra organizzazione”.

Le azioni di Israele, che hanno colpito innanzitutto la popolazione di Gaza più che i leader di Hamas, hanno anche provocato un cambio di direzione nel processo di distensione tra i Paesi musulmani e lo Stato ebraico. Se si escludono le posizioni oltranziste dell’Iran, del partito sciita libanese Hezbollah e quelle cerchiobottiste del Qatar, già con l’amministrazione Trump e i suoi Accordi di Abramo Tel Aviv aveva riaperto canali diplomatici storicamente chiusi, senza dimenticare anche il recente tentativo di riavvicinamento con l’Arabia Saudita. Tutto vanificato in 30 giorni: Emirati Arabi, Bahrain e Marocco, tre dei quattro firmatari degli Accordi insieme al Sudan, hanno condannato ufficialmente la “punizione collettiva”, un crimine di guerra secondo le Nazioni Unite, di Israele sui palestinesi di Gaza. Dichiarazione siglata anche da Riyad, con il tentativo di accordo tra i due Paesi, preannunciato anche dal governo israeliano, definitivamente naufragato. A questo si aggiungono altre rotture importanti: quella con la Turchia, seconda potenza della Nato, e quella con la Giordania. Quest’ultima, Paese storicamente tra i più neutrali sulla questione palestinese, alleato degli Stati Uniti e custode dei luoghi sacri di Gerusalemme, di fronte alle decine di migliaia di morti civili palestinesi ha infatti deciso di ritirare il proprio ambasciatore. E lo stesso ha fatto Ankara.

Il Paese governato da Benjamin Netanyahu si trova quindi di nuovo in una posizione di forte isolamento nella regione mediorientale, come non succedeva da diversi anni. E questo sta creando problemi di politica estera e interna anche al suo alleato americano. Da una parte, la compattezza del mondo musulmano nel criticare Israele ha allontanato ulteriormente gli Stati Uniti da una regione dalla quale aveva già attuato un primo disimpegno con Donald Trump, lasciando spazio ad altri attori internazionali come la Cina. Inoltre, Joe Biden deve fare i conti con un crollo dei consensi tra i cittadini arabo-americani che, secondo i sondaggi, sono passati da un sostegno del 59% nel 2020 al 17% di oggi. Questo si rifletterà probabilmente anche nei risultati del voto per le Presidenziali del prossimo anno: un alto prezzo da pagare per una guerra non sua.

Le ripercussioni interne le sconta, inevitabilmente, anche Israele. Oltre alle critiche a governo, esercito e intelligence, seguite alle continue richieste di dimissioni di Netanyahu, il premier si ritrova adesso un Paese sgretolato, tra chi chiede lo stop alle violenze, chi invece grida vendetta, i coloni nei Territori occupati che hanno incrementato le azioni violente nei confronti dei palestinesi e le minacce alla sua sicurezza. Quest’ultime vengono sia dalle cellule estremiste dislocate in Cisgiordania, dove le Forze di difesa israeliane hanno intensificato le operazioni antiterrorismo, facendo schizzare il numero degli arresti e delle vittime, sia dal confine nord, quello che separa il paese dal Libano. Su quel fronte continua il lancio di razzi tra le Idf e Hezbollah, con il rischio che la tensione cresca fino a convincere le milizie sciite, appoggiate dall’Iran, a entrare di nuovo in guerra con Israele. Un’ipotesi al momento remota, sia perché questo causerebbe un pericoloso allargamento del conflitto, sia perché la popolazione libanese, travolta dalla crisi economica e politica, non ha alcuna intenzione di vivere un nuovo conflitto contro il potente vicino dopo quello del 2006.

Quale sia il risultato che Israele vuole ottenere al termine di questa nuova guerra a Gaza, se si lasciano da parte le dichiarazioni sulla “eliminazione di Hamas”, non è ancora chiaro. Un’indicazione emerge dal documento prodotto dal ministero dell’Intelligence di Tel Aviv e diffuso nei giorni scorsi. Le idee proposte sono tre. La prima, la preferita degli uomini del ministero, prevedeva una pulizia etnica dei palestinesi di Gaza attraverso lo sfollamento di massa in Egitto e una successiva loro redistribuzione tra alcuni Paesi disposti a offrire accoglienza. Un’ipotesi impraticabile per l’opposizione del Cairo, che non ha alcuna intenzione di accogliere 2,3 milioni di persone nel Sinai, e per il ‘no’ secco di un alleato come gli Stati Uniti. Le alternative erano, invece, l’individuazione di un leader arabo da far governare a Gaza o riportare nella Striscia l’Autorità Nazionale Palestinese, a trazione Fatah. Quest’ultima opzione è quella sulla quale stanno lavorando gli Stati Uniti, con il segretario di Stato, Antony Blinken, che l’ha già presentata al presidente palestinese Abu Mazen. Ma gli esempi del passato, dall’Afghanistan all’Iraq, fino all’ex Governo di Accordo Nazionale libico di Fayez al-Sarraj, dimostrano che i governi calati dall’alto sono destinati a fallire. Così, la storia futura della Striscia di Gaza e del conflitto israelo-palestinese rimane ancora tutta da scrivere. Intanto, i bombardamenti andranno avanti e i civili palestinesi continueranno a morire.

Twitter: @GianniRosini

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