A Termoli c’è un museo d’arte contemporanea molto originale, nato quattro anni fa dalle ceneri di un mercato coperto. Il grande edificio circolare adesso si chiama Macte: lo dirigono e presiedono con sguardo lungo due millenial, Caterina Riva e Paolo De Matteis Larivera. Alle sue fondamenta, una collezione permanente alimentata da 500 opere del premio Termoli, inaugurato nel 1955. La scommessa è, a suo modo, formidabile: trapiantare i nuovi linguaggi creativi in un piccolo borgo marinaro del Molise, fuori dai classici circuiti metropolitani. Ma l’esperimento, nonostante il Covid di mezzo, sta mettendo le ali. E l’ingresso è per di più gratuito.
Nelle settimane scorse vi ha inaugurato una mostra particolarmente importante, “Tutte le follie di Jac”, curata da Luca Raffaelli. Protagonista l’indimenticabile Jacovitti, che era originario proprio di Termoli: da bambino si divertiva a disegnare sui lastroni delle sue strade dei puttini e i termolesi ricambiavano con un obolo. A cent’anni esatti dalla nascita di un autore visionario e incasellabile che ha ispirato, per dirne uno, Andrea Pazienza, saranno esposte fino al 25 febbraio parecchie sue tavole originali, riproduzioni e materiale d’approfondimento. Sessant’anni di carriera, stella polare del fumetto italiano del Novecento, dal suo pennino intinto nel calamaio sono usciti personaggi in technicolor cristallizzati nell’immaginario di più generazioni come Cocco Bill, Zorry Kid, Jack Mandolino e Tom Ficcanaso.
Si leggevano avidamente le sue strisce su Il Vittorioso, il Corriere dei Piccoli e il Corriere dei Ragazzi; l’Italia, nel senso di popolo, mandava a memoria i suoi geniali calembour, quel neo-dadaismo verbale che venne però mutuato anche dalle avanguardie e dal Movimento del 77. Segni unici e riconoscibilissimi. Lui covava un’eversione smaliziata che trascendeva dalle appartenenze politiche e ideologiche: decostruiva ogni linguaggio dato e demistificava/sbertucciava il mondo, inclusi noi stessi. Imitatissimo ma senza eredi, andava a mano libera: nessuna sceneggiatura né traccia a matita. Il risultato finale, sempre impeccabile, lasciava e lascia di stucco.
L’esposizione di Termoli è uno due binari di un progetto comune intitolato Jacovittissimevolmente: se nel centro adriatico l’accento viene posto sul suo metodo di lavoro (quale magia e talento, tecnica e dura disciplina c’è insomma dietro i suoi salamini e le sue lische di pesce), al Maxxi della sua Roma adottiva ha aperto i battenti il 25 ottobre “L’incontenibile arte dell’umorismo” (a cura di Dino Aloi e della figlia Silvia, insieme a Giulia Ferracci). Quest’ultima, che ha invece un taglio antologico, chiuderà il 18 febbraio. Banghete! Bummete! Chissà cosa disegnerebbe oggi, e quali onomatopee sfornerebbe, in un pianeta sempre più plumbeo e sempre meno jacovittesco.