Il meraviglioso rapporto coi genitori, la cameretta dove nascono le canzoni, la “fame” di farcela, la forza e le debolezze, sono tutti spunti che, se ben approfonditi e scritti nel documentario, avrebbero potuto restituire al grande pubblico quello che Blanco è: un ventenne che ce l'ha fatta e che, ora, deve dimostrare tutto per meritare un posto nell'olimpo della musica
In due anni ritrovarsi catapultato da un piccolo paesino allo star system della musica italiana. A soli vent’anni. La storia del giovanissimo Riccardo Fabbriconi, noto come Blanco, è in qualche modo racchiusa nel road movie “Bruciasse il cielo” (che è anche il titolo del nuovo singolo in uscita venerdì), disponibile su Prime Video dal 9 novembre. Iniziamo col dire che lo spunto c’era, la favola da raccontare anche, Blanco poi ha un istinto “animalesco” da preservare e unico nella sua generazione, purtroppo però in un’oretta di proiezione tutto ciò viene accennato, ma non approfondito. La genesi del fenomeno “Blu celeste” e della sensazione di solitudine che percorre quel disco viene trattata superficialmente, viene dato sicuramente più spazio alla seconda fase, quella di “Innamorato” (2023) degli stadi, della trasferta americana e del luccichio del patinato mondo dello spettacolo.
Ma il vero Riccardo non è quello delle sfilate di moda né dei servizi patinati, è quello seduto in mutande, mentre fuma, su una moquette in una stanza vuota, a piedi scalzi che si racconta. Questo si vede in “Bruciasse il cielo”, ma quello che manca è andare in profondità nei sentimenti di un ragazzo che ce l’ha fatta. Un ragazzo che inizia a muovere a soli 15 anni i primi passi nel mondo della musica, ma responsabilizzato dai genitori (cosa rara ormai) tanto che ha anche lavorato in pizzeria. Da lì piano piano e con diverse trasferte a Milano per registrare i primi demo, coi soldi guadagnati al lavoro, Riccardo si trasforma in Blanco e dà forma a tutte quelle canzoni nate nella sua cameretta e nella cantina per poi sfornare il bel disco “Blu celeste”. Un ritratto musicale sincero, che arriva dritto come un pugno nello stomaco e che rimane, ad oggi, il suo disco più bello.
Dopo il primo successo e boom arriva poi “Innamorato” che viene spinto soprattutto dall’intuizione geniale del duetto con Mina in “Un briciolo di allegria”. Poi sono arrivati gli stadi di Roma e Milano e lì più in alto non si vola. Blanco è come Icaro e deve stare molto attento a non volare vicino al sole, rischia una caduta ripidissima. Quello che caratterizza il cantante, e lo si capisce anche dal documentario, è la sua forza. Una forza senza filtro e che riesce a catapultarlo non solo tra le tenebre, ma al contempo a fargli amare follemente la vita. Lo si capisce quando sta sul palco e come tiene al contatto fisico non solo con i suoi collaboratori ma anche coi fan. Non si risparmia. “Bruciasse il cielo” è una occasione sprecata perché c’è poco di Riccardo e molto del Blanco patinato di “Innamorato”. Eppure il meraviglioso rapporto coi genitori, la cameretta dove nascono le canzoni, la “fame” di farcela, la forza e le debolezze, sono tutti spunti che, se ben approfonditi e scritti nel documentario, avrebbero potuto restituire al grande pubblico quello che Blanco è: un ventenne che ce l’ha fatta e che ora deve dimostrare tutto per meritare un posto nell’olimpo della musica. E la consapevolezza Blanco ce l’ha tanto che ha dichiarato: “Credo che questo road movie rappresenti la chiusura di qualcosa. Dopo questo periodo così pieno vorrei stare fermo, sparire per un po’, perché mai come oggi ho la consapevolezza di voler fare musica e basta”.