Dello scherzo telefonico cui sono abboccati Giorgia Meloni e gli allocchi del suo staff, molto è già stato detto. Sulle falle del sistema di sicurezza che dovrebbe preservare il Primo Ministro da approcci non verificati, sull’assoluto dilettantismo della sua squadra di improvvisati, su tutte le cose che chiunque abbia un minimo di cultura storico-politica conosce – a partire dal nome dell’ultranazionalista ucraino Stepan Bandera – mentre lei dichiara serenamente di ignorare. “Ma la Meloni è bravissima, preparatissima, studia tutti i dossier…” – è la formula che l’indottrinamento generale ha prescritto venga pronunciata a ogni piè sospinto, recitata fino alla nausea dai finti nemici del governo – ‘Stampubblica’ e altri simpatizzanti in borghese – che puntano sostanzialmente a entrare nelle fila della nuova classe padrona o comunque a non disturbare che ‘vuoi mai’.
Non è di questo però che voglio parlare, ma dello schema fondamentale che soggiace al funzionamento del potere, schema per il quale il potere agisce sul reale sempre sotto copertura, celato dalla messinscena che è costretto continuamente ad allestire per dar da vedere all’opinione pubblica qualcosa che non è. A parole Giorgia Meloni si schiera senza distinguo: “Noi scommettiamo sulla vittoria dell’Ucraina” (13/05/2023). Nei fatti sa benissimo che la cosiddetta ‘controffensiva’ è fallita, che – come spiegano da mesi e mesi tutti gli analisti minimamente credibili – l’Ucraina non potrà mai vincere la guerra e bisogna trovare al più presto una “via d’uscita accettabile per entrambe le parti”. Sembra di sentir parlare manco Caracciolo ma direttamente Orsini.
Un atteggiamento talmente nuovo da essere compiutamente descritto nella Repubblica platonica, quando, nel Secondo Libro, Glaucone afferma, dopo lungo ragionamento, che chi ambisca a ottenere il potere politico e disporne, “riconoscerà che si deve volere non essere giusti, ma soltanto sembrarlo” (362 a). In base a questa prospettiva la dimensione in cui la politica si comunica alla polis è necessariamente quella dell’apparenza che si costituisce come negazione del vero.
Tale conclusione è diretta conseguenza di quanto narrato in precedenza nel celeberrimo Mito di Gige, un pastore alle dipendenze del re di Lidia il quale, dopo uno sconvolgente terremoto, recuperò, nelle viscere della voragine che si era spalancata sulla terra, un prodigioso anello di bronzo che, sottratto a un cadavere che lì giaceva, concedeva, se opportunamente ruotato, di divenire invisibili: “Come se ne rese conto, sùbito brigò per essere uno dei messi da inviare al re e quando giunse da lui, gli sedusse la moglie e con il suo aiuto lo assalì e l’uccise. E così conquistò il potere” (360 a-b).
Il senso del racconto è lampante: è l’invisibilità – la conseguente impunità che ne deriva e la possibilità di esercitare violenza senza incontrare resistenza – a costituire il principio fondamentale su cui si basa l’azione politica efficace. Il rapporto tra suddito è sovrano si struttura infatti a partire dalla totale asimmetria della diade ‘vedere/essere visto’ (un’intuizione poi magistralmente sviluppata da Foucault nel suo Sorvegliare e punire e, più recentemente, da Umberto Curi ne La forza dello sguardo). Chi detiene il potere detiene altrettanto il monopolio della vista: attraverso opportuni apparati di sorveglianza, conosce esattamente quel che fanno i sudditi; a questi, viceversa, le stanze del potere rimangono inaccessibili: invisibili i piani d’azioni che vengono decisi, inudibili i discorsi dei potenti: i loro dialoghi, ciò che veramente si dicono.
Alla luce di questo paradigma dietro-logia, il discorso che si compie dietro la messinscena della politica visibile, concepita apposta per schermare il vero, non è la visione complottistica di chi imputi al potere chissà quali trame occulte. All’opposto, dietro-logia è la forma stessa del potere che enuncia e realizza le proprie intenzioni e i propri obiettivi solo quand’è protetto dall’invisibilità e dal segreto.
Per quanto influente, questo meccanismo non rappresenta ovviamente il punto di vista di Platone, ma soltanto una delle maggiori tesi antagonistiche (l’altra essendo quella esposta da Trasimaco) che il filosofo si impegnerà a confutare. Mentre un’adeguata ripresa delle sue conclusioni ci porterebbe troppo lontano, sembra plausibile osservare che nel suo esito attuale il modello esposto da Glaucone risulta in una concezione della politica visibile come pura e semplice propaganda, cioè, essenzialmente, come incessante propagazione di un discorso falso il cui unico scopo è l’accumulazione di quel tanto di consenso che permetta all’altra parte dell’azione politica, quella vera ma nascosta, di continuare ad agire indisturbata.
Il velo di apparenza che separa le due dimensioni oggi non sembra poter essere squarciato. Tende anzi a ispessirsi sempre più, coincidendo col bacino multimediale onnipervasivo su cui si svolge la vicenda del mondo visto e infinitamente commentato dell’esperienza sociale.
Chiedere che venga spento l’interruttore è senz’altro un capriccio infantile. Si può però ben comprendere che qualcuno voglia starsene indisturbato al buio e quando s’accendono le luci del varietà preferisca alzarsi e uscire garbatamente dalla sala.