In tanti hanno visto nella soluzione “pay or consent” adottata da Meta per gli utenti europei di Facebook e Instagram la fine di un’era. Il lancio del servizio a pagamento (10 euro al mese) era stato annunciato con una nota pubblicata il 30 ottobre scorso. Può non piacerci concettualmente, eppure è la strada indicata dalla Corte di Giustizia e da alcune autorità.
La decisione trae origine da una sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, pronunciata il 4 luglio 2023 su ricorso dell’Oberlandesgericht, il Tribunale superiore del Land di Düsseldorf, nell’ambito di una controversia tra Meta e il Bundeskartellamt (l’Autorità delle concorrenza tedesca), che aveva vietato al colosso statunitense di subordinare, nelle condizioni generali, l’utilizzo dei propri servizi al trattamento dei cosiddetti “off Facebook data”.
Il “peccato originale” risale dunque agli anni scorsi e risiede nel rifiuto ideologico delle Autorità in Ue della base giuridica contrattuale, che sarebbe stata probabilmente più corretta e trasparente, scolpendo esplicitamente profilazioni nell’oggetto dei contratti e prefigurando anche una valutazione economica del dato personale. Si tratta, in sostanza, dei dati relativi alle attività degli utenti all’esterno del social network, come le visite o il compimento di determinate azioni di navigazione su pagine web e app di terzi, collegate a Facebook attraverso interfacce di programmazione, i “Facebook Business Tools”, o tramite cookie o tecnologie di archiviazione simili posizionati sul pc o dispositivo mobile dell’utente, e successivamente correlati con gli account Facebook degli utenti interessati, che, attraverso questo meccanismo, ricevono pubblicità personalizzata.
Alla decisione della Corte di Giustizia, che aveva confermato l’illiceità di tale trattamento su base contrattuale, ha fatto poi seguito una decisione urgente e vincolante del Comitato europeo per la protezione dei dati, che ha imposto a Meta il divieto di trattare i dati personali dei propri utenti per la pubblicità comportamentale sulle basi giuridiche del contratto e dell’interesse legittimo in tutto lo Spazio Economico Europeo (SEE).
Non per contratto, dunque, né per interesse legittimo. Che sia l’utente, allora, a scegliere se ricevere pubblicità mirata sul proprio profilo o, in alternativa, pagare un abbonamento per ricevere i servizi forniti tramite Facebook e Instagram senza alcuna profilazione indesiderata.
Un abominio giuridico? Non del tutto.
È stata la stessa Corte di Giustizia a suggerire una soluzione di questo tipo, riconoscendo la possibilità, per gli utenti, di prestare il consenso al trattamento dei propri dati personali per finalità di marketing mirato, a condizione di non essere costretti a rinunciare del tutto a fruire del servizio. Il che significa, secondo i Giudici di Lussemburgo, “che a tali utenti deve essere offerta, se necessario dietro compenso adeguato, un’alternativa equivalente non accompagnata da tali operazioni di trattamento dei dati”.
E ora le stesse Autorità regolatrici si sono messe, forse senza rendersene del tutto conto, in un guado. Un guado che non fa di certo bene agli utenti interessati del trattamento, non favorisce la trasparenza sostanziale e, non in ultimo, alimenta un condizionamento psicologico per cui si è, e si sarà sempre più portati a dispensare “doverosi consensi” in cambio della fruizione gratuita di un servizio online. Arrivando nei fatti e paradossalmente a prefigurare quello che forse si sarebbe voluto evitare: la monetizzazione dei nostri dati personali!
È precisamente lo stesso meccanismo al quale ci hanno abituato gli editori di quotidiani online che hanno eretto un cookie wall tra l’utente e il contenuto. Anche in questo caso, è necessario prestare il consenso alla profilazione per poter leggere un articolo senza abbonamento. E così, la monetizzazione del dato personale, di fatto, è diventata digeribile, nel silenzio piuttosto emblematico della nostra Autorità Garante.
In fin dei conti, però, quanto può essere dannoso per gli utenti accettare di ricevere pubblicità personalizzata per accedere gratuitamente a una piattaforma social? Quali terribili conseguenze potrebbe avere questa pratica sui diritti e sulle libertà degli interessati? Non dimentichiamo che stiamo parlando, almeno astrattamente, di un servizio del tutto voluttuario: nessuno avrebbe realmente bisogno di pubblicare post o condividere immagini su una bacheca digitale. Possiamo scegliere di farlo. Così come, a ben vedere, scegliamo di prestare il consenso al tracciamento del nostro comportamento di navigazione quando approdiamo su un sito web, autorizzando il gestore dello stesso sito a cedere i nostri dati a Meta perché possa proporre sulle nostre bacheche Facebook e Instagram annunci pubblicitari basati sui nostri interessi. È così che funziona il re-marketing.
Peccato che ormai viviamo di digitalità offerta – nel silenzio generale – sull’onda di una gratuità pelosa, perché non era trasparente la mercificazione in atto dei nostri profili a livello internazionale. E questa consapevolezza è arrivata – se è realmente arrivata – troppo tardi.
In definitiva, è prevedibile che tutto resti nella sostanza come prima. Quanti accetteranno di pagare? Pochissimi. E il gioco per i Gafam è servito, con la benedizione del Gdpr.