Tra una tempesta e l’altra. Mentre Domingos inizia attraversa il suo passaggio sull’Italia portando piogge e vento ancora una volta sulla Toscana e sul Centro-Sud. si fanno ancora i conti con Ciarán, che in Europa ha lasciato circa venti vittime tra Francia, Belgio, Spagna, Germania e Paesi Bassi. Soprattutto in Italia, dove il colpo di coda della tempesta non ha colpito più duramente ma ha ucciso più persone. Otto le vittime italiane. L’ennesimo conto che mostra quanto il Paese sia più esposto di altri alle conseguenze degli eventi estremi per una serie di ragioni. Tra queste, le caratteristiche ambientali, l’eccessiva urbanizzazione del territorio che lo ha reso più impermeabile, la densità abitativa, la mancanza di prevenzione e di formazione delle amministrazioni e degli stessi cittadini, ma anche di manutenzione delle aree interne appenniniche, spesso quelle più a rischio. Problemi che gli esperti conoscono da tempo, ma la cui soluzione non è più rimandabile data la violenza e la frequenza di questi eventi. Non si parla, dunque, di catastrofi estremamente rare, come la piena del fiume Reno che, a luglio 2021, provocò in Europa oltre 180 morti, per la maggior parte in Germania e Belgio, ma di eventi sempre meno sporadici e con cui diversi Paesi fanno i conti ormai ogni anno. “Siamo molto preoccupati, perché sono diversi i fattori che in Italia possono far salire il numero di vittime più di quanto avvenga altrove. L’Italia è oggi un Paese particolarmente a rischio”, spiega Pierluigi Claps, professore ordinario di Idrologia e Costruzioni idrauliche del Dipartimento di Ingegneria dell’Ambiente, del Territorio e delle Infrastrutture del Politecnico di Torino.
Morire durante un’alluvione – Solo considerando gli ultimi anni, secondo i dati elaborati dall’Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeologica (Irpi) del Consiglio Nazionale delle Ricerche, tra frane, inondazioni e allagamenti nel 2021 ci sono stati sei morti, mentre nel 2022 sono 23 le persone che hanno perso la vita, tredici nell’alluvione delle Marche. E nel 2023 è andata peggio: nei primi sei mesi sono stati registrati 25 eventi, che hanno provocato la morte di 20 persone, sedici nella tragedia dell’Emilia Romagna. Considerando esclusivamente la tempesta Ciaràn, è già stato superato il numero delle vittime dei due anni precedenti.
Il confronto con altri Paesi – “Nel quadro europeo – commenta Claps – l’Italia è quella di gran lunga messa peggio per i fenomeni alluvionali. Intanto perché la parte del territorio esposta al pericolo di alluvioni è enorme. In Francia, solo la Provenza è paragonabile, dal punto di vista del rischio, alla maggior parte dell’area appenninica italiana. Stesso discorso vale per la Catalogna, in Spagna”. Un altro confronto può essere fatto con la Grecia: “Pur avendo un territorio montuoso e caratteristiche simili, l’Italia ha una quota molto maggiore di popolazione esposta”. Anche per la presenza di bacini idrografici piuttosto piccoli lungo la dorsale appenninica. È più facile che vadano in crisi, anche nel giro di due o tre ore. “La protezione di tutti gli insediamenti che si trovano in questi bacini richiederebbe una pianificazione delle risorse che noi, oggettivamente, non abbiamo”, spiega Claps. Perché se alcune caratteristiche fisiche del territorio non aiutano, poco o nulla si è fatto per una pianificazione che tenesse conto di tali peculiarità e dell’intensificazione degli eventi estremi. Anche sul consumo di suolo “in Francia hanno costruito di tutto, ma in un’area più concentrata”, mentre in Italia il fenomeno riguarda quasi tutto il Paese.
Il nodo del consumo di suolo – Non fa eccezione la Toscana. “L’alluvione è avvenuta nella piana che, da Pistoia a Bagno a Ripoli, più o meno è tutta alluvionabile”, spiega a ilfattoquotidiano.it Paolo Pileri, docente di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. E la Toscana ha continuato a cementificare suolo anche in quella piana. “Ogni volta che asfalto un suolo agricolo – spiega – aumento da sei a otto volte l’acqua che circola in superficie. Evidentemente non è chiaro a chi governa il territorio”. I dati sono recenti: la Toscana ha cementificato circa 59 ettari in zone a media pericolosità idraulica. “Questo continua ad accadere – commenta Pileri – perché ci sono deroghe, si ritiene che gli argini dell’Arno e di altri corsi d’acqua reggeranno e non si tiene conto del clima che è cambiato. Significa esporre al rischio persone e beni”. E non c’è una legge: “Sul sito della Conferenza delle Regioni, la pagina dedicata alla difesa del suolo è aggiornata a luglio 2022, ma dovrebbe essere il tema prioritario di questa Italia, tutta scoscesa”. Ha a che fare con questo problema anche ciò che è accaduto a Milano giorni fa. “L’acqua del Seveso è sempre venuta fuori, ma oggi ne arriva di più. Da un lato – spiega Pileri – c’è il fattore clima, con precipitazioni più intense, dall’altro quest’acqua arriva dalla Brianza, che ha una media di cemetificazione del 40 per cento. Alcuni Comuni hanno il 70 per cento di territorio completamente impermeabile. E allora non si può gestire il problema di Milano senza dialogare con la Brianza”. Per Pileri si tratta di una sostanziale sottoconsiderazione del fenomeno: “I presidenti delle Regioni continuano a dare la colpa al cambiamento climatico. Potrebbe essere una svolta interessante nella consapevolezza, ma ci leggo anche il tentativo di non assumersi le proprie responsabilità, facendo credere che si tratta di fenomeni che prendono alla sprovvista. Non è così”. La Toscana, nella fattispecie, ha cementificato 238 ettari in tutta la regione. “Anche se lo fai nelle aree non alluvionabili – aggiunge – con la pioggia aumenta l’acqua in circolazione che, comunque, si scaricherà anche in aree alluvionabili più a valle”.
La prevenzione e la formazione, che non si fanno – Ci sono, poi, altri fattori che espongono l’Italia. “Sulla prevenzione non facciamo nulla e anche le risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza non sono sulla prevenzione del dissesto idrogeologico, ma sulle infrastrutture”, aggiunge Pileri. Che ha fatto i conti: “Pensavo ai 9 miliardi che il presidente della Regione Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, chiede per i danni dell’alluvione di maggio. Ma se noi ne spendessimo sette ogni anno per tenere in ordine l’assetto di tutti i canali, fiumi e acquedotti d’Italia e, nel frattempo, smettessimo di cementificare nelle aree che dovrebbero trattenere l’acqua, non saremmo qui a parlare di tali questioni”. Prevenire, poi, significa anche informare e formare enti e cittadini: “Vorrei chiedere ai sindaci se sanno che cos’è una frana, una colata o come risponde il suolo se si cementifica. Nella piana di Firenze, parte dell’Università di Agraria è stata costruita in una zona paludosa”. Ma la formazione riguarda anche la gestione dell’emergenza: “Se si fa una riflessione partendo dalle vittime – aggiunge Claps – bisogna sapere quanto è importante informare i cittadini su come affrontare determinate situazioni. Basta poco per trovarsi in grossi guai ed è molto alto il numero delle persone che in Italia perdono la vita durante un’alluvione, perché si trovano nella propria auto pensando di essere al sicuro”.
Un problema di competenze – La prevenzione, poi, dovrebbe includere la manutenzione, soprattutto delle aree interne appenniniche abbandonate. “Abbiamo una frammentazione amministrativa enorme – spiega Pileri – e tantissimi piccoli comuni proprio nelle aree più delicate del paese”. Non è solo una questione di risorse finanziarie: “I nostri Comuni hanno mezzo architetto, mezzo ingegnere, un quarto di geometra. Questo è stato uno dei problemi dell’appennino bolognese, dove c’è stata un’alluvione con oltre 900 frane”. Un problema che sottolinea anche Claps. “Non tutti i Comuni – spiega – hanno la forza di organizzare una progettazione e portare a finanziamento interventi. E allora la Regione agisce in base alle priorità e, un po’ per volta, realizza le opere. Di questo passo non ce la possiamo fare a reggere il ritmo della preoccupante ricorrenza di eventi estremi”. Eppure, per l’Italia il piccolo borgo collinare e montano è un elemento distintivo, anche rispetto all’offerta turistica. “Quanti dei nostri borghi turistici sono esenti da gravi rischi idrogeologici? Purtroppo molto pochi”, spiega Claps. Per Pileri la strada maestra è quella di ridisegnare le deleghe sulla manutenzione del territorio. “Non si può pensare che ogni piccolo Comune pulisca il suo pezzetto di torrente. Uno lo fa, l’altro non lo fa, un altro ancora non riesce. Queste funzioni vanno assegnate ai soggetti che, per la scala del fenomeno ambientale, sono i più titolati”. Ma qui entrano in gioco i finanziamenti. “La rendita fondiaria fa comodo al sindaco – conclude Pileri – come elemento di contrattazione politica con gli elettori, l’incasso degli oneri di urbanizzazione fa comodo ai Comuni che, senza finanziamenti, sono alla canna del gas. Il risultato è l’inefficienza”.