di Claudia De Martino

Oggi i media si dividono in due categorie: quelli che sono ossessivamente concentrati sulle operazioni di guerra e seguono nei dettagli l’incursione di terra israeliana; e quelli che riportano altrettanto nel dettaglio la conta dei bombardamenti e delle vittime palestinesi. In questo affannato sforzo di descrivere ogni fase dell’avanzamento della guerra – e nel tentativo spesso di trovare un colpevole per questa nuova esplosione di violenza – si perde di vista che il modo migliore di contribuire alla pace sarebbe prospettare una via d’uscita dai problemi strutturali che hanno innescato questo conflitto, dove non è possibile compiere una netta divisione tra vittime e carnefici perché entrambi i contendenti – Hamas e l’attuale governo israeliano – sono altrettanto responsabili della violenza attualmente in corso.

Da spettatori esterni al conflitto, come le opinioni pubbliche europee sono, sarebbe utile concentrarsi sugli elementi fondamentali su cui si potrebbe costruire una soluzione politica al conflitto, l’unica possibilità di mettere fine non soltanto a questo ultimo terribile episodio di violenza, ma a quell’equazione malata che periodicamente – dal 2009 con Piombo fuso, al 2021 con Pilastro di difesa, al 2014 con Margine protettivo, al 2021 con l’operazione mirata “Guardiani del muro” contro la Jihad islamica – conduce a continui scontri militari tra Gaza e Israele, ciclicamente avviati dal lancio di razzi dalla Striscia verso le città israeliane e dalla risposta, generalmente sproporzionata, di Israele con bombardamenti aerei o incursioni di terra su Gaza.

Il dilemma israeliano, annunciato a più riprese dal governo Netanyahu, è quello di non poter pensare più di vivere accanto a un territorio amministrato da un’organizzazione terroristica – considerata tale non solo da Israele, ma anche dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti e avversata da molti Paesi arabi della regione – responsabile di un attentato efferato come quello del 7 ottobre scorso. Essa rappresenta una preoccupazione legittima, anche se formulata nella roboante intenzione di “eliminare Hamas”, poi ridimensionato nel ben più pragmatico obiettivo di infliggere un duro colpo all’ala militare dell’organizzazione, decapitandone la dirigenza e uccidendo quanti più militanti possibile, distruggendone gli arsenali e i depositi di armi, rendendo così impossibili ulteriori attacchi sui propri civili a partire dalla Striscia.

Tale obiettivo militare sarebbe legittimo, ma non può provocare l’uccisione indiscriminata di vittime civili palestinesi nel tentativo di minimizzare le perdite tra i soldati israeliani, affidandosi troppo ai bombardamenti aerei piuttosto che alle molto più mirate operazioni di terra. In ogni caso, gli israeliani non potranno restare a lungo nella Striscia e dovrebbero già prevedere – ed essere intimati dalla comunità internazionale a farlo – di ritirarsi non appena la maggior parte dei loro obiettivi risulterà raggiunta, l’ala militare di Hamas risulterà gravemente danneggiata e non più operativa e l’organizzazione non rappresenterà più una minaccia per le comunità israeliane oltreconfine che sono state evacuate dai kibbutzim e dai moshavim limitrofi alla Striscia.

Il dilemma palestinese è che Hamas non rappresenta affatto la volontà popolare della maggioranza dei palestinesi, ma, nonostante tutto, non tutti riescono a sconfessarne l’operato e a condannarne le atrocità commesse il 7 ottobre, perché il Movimento islamico di resistenza ha comunque raggiunto un obiettivo importante, impensabile fino a poco prima: dimostrare che l’esercito israeliano non è affatto imbattibile, lanciando così a tutti i palestinesi un messaggio di speranza, ovvero che l’occupazione dei territori palestinesi un giorno lontano potrebbe anche cessare. Perché il problema palestinese, prima e dopo l’attuale conflitto che ne rappresenta un climax, rimarrà l’occupazione israeliana oltre i confini legittimi del ’48, che ha reso impossibile la costituzione di un proprio stato palestinese in cui anche gli arabi della Cisgiordania e Gaza potessero vivere in sicurezza godendo dei loro diritti individuali fondamentali.

È dunque evidente che una soluzione d’uscita dall’attuale conflitto, che punti al superamento duraturo delle cause che l’hanno originato, non dovrà puntare sul ripristino dello status quo ante, ovvero di una condizione in cui i palestinesi erano oppressi, divisi in enclave separate tra loro, assoggettati all’arbitrio dei governi israeliani, che permettevano o proibivano loro i contatti con il mondo esterno a secondo delle loro imperscrutabili ragioni di sicurezza. È chiaro che una soluzione di pace dovrà puntare a combattere l’occupazione israeliana, che va identificata come la più grande minaccia alla sicurezza regionale, ancora maggiore di quella rappresentata da Hamas.

Se la comunità internazionale, i pacifisti europei vogliono adottare una posizione costruttiva sul confitto in atto, non serve difendere un’organizzazione terroristica che reprime i diritti dei suoi stessi cittadini e li espone come carne da macello alle ritorsioni di un esercito estremamente potente e tecnologico con cui non è possibile confrontarsi militarmente, ma premere sui rispettivi governi perché modifichino la loro posizione diplomatica sui “due Stati”, lavorando già da oggi con l’amministrazione Biden per imporre ad Israele un insieme di condizioni una volta che Hamas sarà stato sconfitto ed esautorato dal governo della Striscia. Perché questo è il momento proficuo per incanalare l’alta attenzione internazionale sul conflitto verso la ricerca di una soluzione, che non si troverà cercando di riabilitare Hamas come attore politico – che comunque continuerà ad esistere come organizzazione politica, sia nei Territori che nei campi profughi in Giordania, Libano e Siria – ma esercitando una pressione internazionale su Israele tale da spingerlo a ritirarsi dai Territori occupati, almeno secondo le linee programmatiche stabilite a Camp David II dall’accordo preliminare raggiunto tra Barak e Arafat (2000), o alternativamente abrogando la “Legge sullo stato-nazione ebraico” (2018) e concedendo a tutti i palestinesi, ovunque si trovino, diritti politici e civili nell’unico Stato esistente, all’interno del quale già vivono pacificamente due milioni di arabo-israeliani.

Può sembrare un’utopia pensare che un’evoluzione simile sia possibile in un momento tragico come quello presente, in cui si assiste alla massima distanza tra le parti – con Hamas che inneggia alla liberazione della Palestina dal Mediterraneo al Giordano e alcuni esponenti del governo israeliano che esortano alla pulizia etnica nella Striscia -, ma è proprio questo il momento di marginalizzare gli estremisti di entrambe le parti e credere che sia possibile costruire le condizioni della pace, ovvero un contesto in cui il governo Netanyahu venga sostituito, dati i suoi pessimi risultati in termini di sicurezza e la sfiducia di cui gode da parte dell’opinione pubblica nazionale, da uno più moderato e ragionevole, maggiormente collaborativo con la comunità internazionale e aperto ad un rinnovo dei negoziati con i palestinesi. Un governo che dovrà tornare a confrontarsi con una rappresentanza palestinese altrettanto rinnovata nelle sue istituzioni, attraverso elezioni da tenersi sia per l’Anp che per l’Olp, data l’imminente successione all’anziano presidente Abu Mazen.

In fondo è nel momento più buio della storia d’Europa, la Seconda guerra mondiale, che è germinata l’idea dell’unità del continente, e forse è possibile ipotizzare che anche da questo abisso di violenza tra Israele e Palestina possa nascere un percorso verso la coesistenza di due popoli intrinsecamente legati dalla storia.

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