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NBA Freestyle – La rivoluzione Wembanyama: qualcosa di mai visto prima, ma serve tempo

Pensieri in libertà (con libertà di pensiero) sulla settimana di basket Usa

Victor Wembanyama, welcome!
Si inizia da lui? Ma sì, va. La partenza incrociata in palleggio fatta vedere in una delle prime gare contro Covington dei Los Angeles Clippers (poi tornato ai Sixers via trade per James Harden) è da far invidia persino a un’ala-piccola. Per pulizia di movimento, velocità di esecuzione, capacità di mettere palla a terra nello stretto. Figuriamoci se sei un centro di 2.24 metri, in un universo in cui Kareem Abdul Jabbar tirava il gancio-cielo dall’alto dei suoi 2.20. Trattasi di qualcosa mai visto prima su un campo da basket. Di lunghi (tanto lunghi) agili e non pachidermici ce ne sono già stati in passato, non è certo una novità. Anche lo stesso Yao Ming (2.28) era molto mobile per la stazza. Ma qui, con Wembanyama, si è andati ben oltre. Ha praticamente istinti e movimenti da guardia “pura” (con annesso tiro da tre dal palleggio o in catch-and-shoot) nelle dimensioni di uno “Shawn Bradley” qualunque. Trascendentale. Ovvio che con quello specimen fisico – e quelle leve interminabili – sia in grado di stoppare pure un Boeing 747. Meno scontato che possa cambiare così in fretta direzione in aiuto difensivo dal lato debole, per andare a deviare un comodo tiro scoccato dal perimetro. Una rapidità di piedi irragionevole.

Occhio però a non farsi tentare da eccessivi entusiasmi (o pessimismi), se non altro per il sacro amore del gioco. Neanche dopo i 38 punti snocciolati sulla testa di Kevin Durant e compagni, dove peraltro ha mostrato di poter buttare dentro qualsiasi cosa gli venga lanciata a qualsiasi altezza sopra il ferro. Serve tempo. Non si affrettino i responsi, anche se è difficile. Di lavoro da fare ce n’è ancora, senza dubbio. Per esempio, deve rafforzarsi nella parte alta del corpo, per soffrire meno sotto canestro (e in entrata) contro giocatori molto muscolari. Ha bisogno di lavorare sui movimenti in post-basso (magari perfezionando il jump-hook), per aggiungere un’alternativa efficace al gioco frontale. Deve imparare a selezionare meglio le conclusioni a difesa schierata e velocizzare il primo passo nelle situazioni di gioco meno dinamiche. La gestione poi della propria irruenza difensiva sarà limata con l’esperienza. È solo l’inizio. Un grande inizio. E non poteva trovarsi in un posto migliore di San Antonio.

Nikola Jokic is on fire
Nella quarta partita della stagione contro Utah, Nikola Jokic aveva già messo una tripla-doppia (27 punti, 11 assist, 10 rimbalzi) con alcuni movimenti sul perno davvero notevoli per capacità di aggirare il proprio marcatore in uno contro uno. Fondamentali allo stato puro. Ha ripreso da dove aveva lasciato. Così come i Denver Nuggets, in effetti. Continua a essere uno dei migliori giocatori al mondo, spesso il migliore. Non perché segna a piacimento (anche lunedì contro New Orleans Pelicans, tripla-doppia con 35 punti…). Non per come passa la palla. Nemmeno per i numeri che mette a referto (al quarto posto nella storia per triple-doppie). Cose banali, financo terrene, per uno che ha il timing giusto per rendere un alley-oop lanciato dalla propria metà campo semplice come una rimessa dal fondo. Jokic è una delle menti pensatrici di basket più raffinate e veloci della storia, sullo stesso piano di gente illustre come Larry Bird. Legge le difese, trova una risposta in modo rapido, quasi fosse una premonizione. Una linea di passaggio, un floater, un tiro cadendo all’indietro. Ha tutto il pacchetto completo. Il “senso di ragno” (alla Peter Parker) gli permette di vedere un lob su un taglio almeno un’azione prima dei comuni mortali. Ah, i giochi a due con Jamal Murray sono pressoché impossibili da marcare, perché non danno punti di riferimento alle difese. Sta dimostrando che per dominare in NBA non sempre bisogna saper saltare un metro e mezzo da terra. Le medie? 28.4 punti, conditi da 12.9 rimbalzi e 8.4 assist. Tiro da 3? Tutto bene, grazie (38.7%).

James Harden ai Clippers
Non c’entra il gossip e nemmeno le diatribe dentro gli spogliatoi o le guerre interne con la dirigenza. Perché a meno che non si bazzichi con continuità i corridoi di una squadra NBA, nessuno può sapere davvero cosa sia successo. Però, ecco, James Harden è alla sua quarta squadra in tre anni. In ognuna di questa aveva pubblicamente promesso di vincere. Non è successo, per un motivo o per un altro, ed è andato via sbattendo la porta. C’è da premettere che Harden è offensivamente a malapena la metà del giocatore visto a Houston (uno dei migliori attaccanti di sempre). Ci sono stati diversi problemi fisici, è vero. Intendiamoci, a basket ci sa giocare ancora, per carità, e passa la palla divinamente. Ma ha perso velocità sul primo passo, è spesso in cattiva forma, è molto meno atletico nelle incursioni dentro l’area. Cosa potrà portare ai Clippers? Troppo presto per parlarne (nonostante il disastro contro i Knicks). Kawhi Leonard, Paul George, Russell Westbrook e James Harden sono giocatori essenzialmente on-the-ball, amano mettersi in ritmo dal palleggio. Di certo, la capacità (o voglia) che avrà qualcuno di loro di evoluire un po’ più lontano dalla palla potrà essere determinante per la stagione dei Clippers, soprattutto in eventuale ottica playoff. Devono definire bene gerarchie, minuti, ruoli, combinazioni (Westbrook nella second unit?), perché se iniziano con “adesso tiro io, la prossima tiri tu, ora tocca a me…”, sono fritti. Work in progress.

That’s all Folks! Alla prossima settimana.