Mi faccio una domanda, mi do una risposta: se di generi fotografici si può ancora parlare, in tempi di osmosi e ibridazioni, quello della fotografia di architettura è tra i più lontani dalle mie passioni e dai miei percorsi; allora – ecco la domanda – perché quando mi trovo davanti alle fotografie di Gabriele Basilico sento qualcosa che muove profondamente le mie corde emotive?
La risposta – non ne vedo altre – è che le sue non sono solo, o forse nient’affatto, fotografie di architettura, come invece vengono spesso definite. Eppure lui architetto lo era per davvero, dunque le sue sono fotografie di chi l’architettura l’ha studiata e assimilata.
A dieci anni dalla sua prematura scomparsa, Milano gli dedica la mostra retrospettiva più illuminante finora realizzata, intitolata Le mie città, che si snoda tra Palazzo Reale e la Triennale (visibile fino all’11 febbraio 2014). È una buona occasione per cogliere la profondità di un autore che ha saputo coniugare esattezza e carezza.
Quando chiedevano a Basilico quale fosse il suo lavoro non rispondeva “fotografo”, preferiva definirsi come “un misuratore di spazi”. Ma sottesa e sottintesa c’era un’altra parola: abitati. Spazi abitati. Eccola la differenza, eccola la risposta. Normalmente, quando guardo una foto di architettura, ne ammiro la fattura, la comprensione, da parte dell’autore, dei valori formali e creativi di un edificio e la sua personale restituzione, ma resto sul piano razionale e non mi scaldo. Poi ci sono le fotografie di Gabriele Basilico, e mi accade tutt’altro: vedo un edificio e mi sorprendo a chiedermi “chi abita dietro quella finestra?”. Vedo un parcheggio e mi domando chi sia il proprietario di quella certa auto. Così tutto cambia: spazi, sì, ma abitati, appunto. Il vuoto delle città ritratte da Basilico è pienissimo. Pienissimo di vite, di storie, di emozioni, di atmosfere, nessuna visibile ma tutte avvertibili.
Basilico amava i luoghi, non si limitava a scrutarli. Amava in primis la sua Milano, di cui ci ha rivelato luci e scorci inattesi, fin da quando ci regalò Milano. Ritratti di fabbriche, il suo libro seminale uscito nel 1981 (e ora ristampato). La sua carriera lo ha portato in giro per il mondo, di città in città, chiamato per trovare di volta in volta il rispettivo genius loci. Città costruite dall’uomo e città talvolta “decostruite” ancora dall’uomo, come per esempio quelle distrutte dalla guerra, come la sua Beirut in macerie, spettrale, eppure pulsante. Un tragitto che dagli spazi urbani va verso gli spazi umani, e da questi porta dritto verso gli spazi più intimi e personali.
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Foto di copertina: 2011 Autoritratto di Gabriele Basilico © Gabriele Basilico Archivio Gabriele Basilico