Salute

Il ritocchino e “l’ipocondria di bellezza”: la chirurgia estestica non può colmare un disagio

Gli esseri umani sono esseri sociali che desiderano compiacersi e autorealizzarsi all’interno del contesto in cui vivono. Chi di noi non si preoccupa minimamente del proprio aspetto esteriore? Una giusta dose di amor proprio è senz’altro normale. La preoccupazione nasce nel momento in cui l’insoddisfazione per il proprio aspetto determina un disagio significativo tale da compromettere il proprio operato in ambito professionale, sociale e familiare.

Allora scatta la ricerca sfrenata di ogni mezzo per tentare di cambiare il proprio aspetto al fine di uniformarsi ai canoni sociali. Si ricorre agli interventi di chirurgia estetica talvolta in modo inappropriato per colmare il disagio che si vive nel confronto con gli altri. Questo atteggiamento può arrivare a raggiungere un’intensità patologica definita, dal medico italiano Morselli, “ipocondria di bellezza”. Ovviamente non tutti coloro che ricorrono alla chirurgia e medicina estetica hanno questo substrato patologico. Nella maggior parte dei casi le persone vivono un disagio legato agli effetti che il tempo ha sul proprio aspetto e sentono la necessità di ricorrere al cosiddetto ‘ritocchino’ per migliorare la loro immagine o per conformarsi ai canoni estetici richiesti dal mondo dei social.

La pressione mediatica in cui viviamo oggigiorno impone canoni estetici standardizzati soprattutto per coloro che lavorano nel mondo dello spettacolo, ma non solo. C’è un ricorso alla medicina e alla chirurgia estetica eccessivo. “Un effetto domino” lo definisce l’attrice e star di Friends Courtney Cox nell’intervista, con il quale si inizia quasi per gioco e si arriva ad accumulare un numero di trattamenti tale da perdere completamente l’architettura fisiologica del volto. L’attrice racconta il suo percorso alla ricerca di un volto giovanile, e il suo continuo ricorso ai filler senza rendersi conto dei cambiamenti graduali e progressivi del suo viso. L’attrice dice addio ai filler, “è stata una totale perdita di tempo e vorrei non aver ceduto alla pressione di farlo”.

Ciò che desta più preoccupazione è la perdita della consapevolezza di quello che sta succedendo: fenotipicamente il corpo cambia, ma il soggetto non se ne accorge.

A questo proposito, è interessante fare un salto nel passato. Siamo verso la metà degli anni 90, il Dott. Semir Zeki, specialista di Neuroanatomia e professore alla University College di Londra, scrive The Neurology of Kinetic Art ponendo le basi per la nascita di una nuova disciplina, la neuroestetica. Lo studio della neuroestetica nasce dall’esigenza di capire i meccanismi biologici alla base dell’interpretazione delle emozioni e dell’apprezzamento estetico. Avete mai fatto caso all’emozione che può suscitare la visione di un bel quadro? Chiaramente non è uguale per tutti perché la percezione che ognuno di noi ha è diversa, soggettiva.

L’osservazione visiva di un oggetto o di una persona, o anche di sé stessi, comporta la selezione a livello neuronale di tutte le immagini precedentemente conservate nella memoria. Questa è la legge della costanza di Zeki in cui viene affermato che il cervello attiva il meccanismo della percezione selettiva per scartare alcune informazioni e trattenerne altre. Ogni nuova immagine viene elaborata ma viene memorizzato solo quel che il cervello reputa necessario e già conosciuto, dice l’autore, ottenendo così consapevolezza degli oggetti, delle persone e situazioni.

Questo meccanismo insieme a quello dell’adattamento neuronale sono alla base del fenomeno descritto dall’attrice, per il quale non ci si accorge dei cambiamenti successivi a un intervento estetico: è come se ci fosse un adattamento veloce e alterato nella percezione della nuova immagine di sé. Quando presente, ancor più grave è il disordine dismorfico che provoca al paziente la percezione del difetto seppur precedentemente corretto, rischiando di vivere una frustrazione ancora più grande di quella che l’ha spinto a ricorrere al primo intervento correttivo.

Il trigger è il continuo stimolo da parte della memoria e confronto sociale spinto dai social dei quali però non si può più fare a meno. Il continuo confronto con gli standard sociali di bellezza imposti può influenzare la percezione dei cambiamenti.

Quello che si può fare è un’attenta analisi della motivazione del soggetto, l’atteggiamento che ha verso la sua fisicità e il grado di aspettativa del risultato estetico. L’autovalutazione dell’immagine di sé influenza completamente il comportamento sociale. È dunque opportuno da parte del medico specialista orientare correttamente il paziente, spiegando che l’iniezione di un filler non è un trattamento chirurgico e richiede tempo e gradualità per raggiungere il risultato completo. Inoltre, un buon risultato estetico non necessariamente coincide con un risultato ideale in termini psicosociali in quanto ogni persona ha caratteristiche uniche, ha un suo bagaglio genetico che lo condurrà a risultati estetici peculiari e sempre diversi.

È importante considerare anche l’effetto placebo quando si valutano i cambiamenti estetici dovuti ai filler. Le aspettative personali e le convinzioni possono influenzare la percezione dei risultati. Ad esempio, se una persona crede fermamente che i filler miglioreranno il suo aspetto, i cambiamenti verranno percepiti in modo più positivo.

Dunque, la capacità di riconoscere i cambiamenti estetici dovuti ai filler dipende dalla sensibilità individuale e da vari fattori psicologici come l’aspettativa, la familiarità e il confronto con l’immagine ideale di bellezza. È importante comunicare apertamente con il professionista quali sono le proprie aspettative e valutare gli effetti e i risultati dei trattamenti nel tempo. Tutto ciò rappresenta un piccolo ma importante passo, orientato però a un obiettivo preciso: spostare l’attenzione sempre più verso un equilibrio tra la nostra interiorità e l’involucro che la contiene.