Cinema

C’è ancora domani, il trionfo di Paola Cortellesi al cinema: tre pregi e tre difetti del film

Ora, sbrogliato un po’ meglio il concetto (tutti chi? tutti come?), è evidente che un pregio enorme di C’è ancora domani sta proprio in questa sintesi valoriale nazional popolare dove la riconoscibilità specchio della sciura milanese di Porta Venezia si può amalgamare naturalmente con quella sora romana del Testaccio. Ma il film campione d'incassi ha anche dei difetti

C’è ancora domani? Altroché! La marcia trionfale della prima prova alla regia di Paola Cortellesi sembra oramai inarrestabile. In nemmeno tre settimane di programmazione ha racimolato 13 milioni di euro, di cui 4 milioni e mezzo solo nell’ultimo weekend, segno che il principio del moltiplicatore del passaparola ha funzionato come non accadeva da almeno un quinquennio. Per fare un confronto sempre a casa Cortellesi, il campione d’incassi Come un gatto in tangenziale (2017) fece 9 milioni e seicentomila euro a fine percorso (cioè dopo qualche mese). Ancora un altro confronto da brividi con i numeri. Cado dalle nubi (2009), il primo film di Zalone, prodromo dei botti successivi ha fatto 14 milioni di incassi a fine corsa, cifra che C’è ancora domani raggiungerà comodamente e supererà nel prossimo fine settimana. Insomma, a occhio un film in bianco e nero con una trametta esile e scolastica, girato praticamente tutto in una sottoscala anni quaranta modello Parasite con attori in vestaglietta e canottiera, potrebbe infilarsi tra i successi di Aldo, Giovanni e Giacomo (La leggenda di Al, John e Jack- Così è la vita) che fecero sui 22 milioni e la coppia Benigni/Pieraccioni con Pinocchio/Fuochi d’artificio tra i 25 e 26 milioni di euro, se non addirittura spingersi tra i 28/29 milioni di incassi di Benvenuti al Nord e Benvenuti al Sud di Luca Miniero.

Chi lo va a vedere? Chi va al cinema a vedere questa stramba replica di neorealismo Castellani/Pagliero che tampona improvvisamente un carico di titoli di Raffaello Matarazzo? Difficile dirlo. Certo è che il richiamo al femminile di Paola Cortellesi, qui regista, attrice e sceneggiatrice, è una sorta di arma moderatamente trasversale a sinistra come a destra sia per un pubblico più generalista, abituato alla Paola simpatica e graziosa della tv, lontano dal cinema da tempo; sia per le nicchie dure e pure della cinefilia che masticano film incasellabili spesso dai risultati ben peggiori, quindi non pronti a vere e proprie stroncature. Inoltre, il richiamo “femminista” che il film riserva come colpo di scena finale rimescola le carte modello Non una di meno, fenomeno di massa al femminile che nessuno ricorda più nelle sue esatte immense proporzioni quantitative, ma che richiama un po’ quel gesto assoluto e totale che la protagonista di C’è ancora domani vuole compiere a tutti i costi rompendo la gabbia oppressiva familiare/maschilista. Curioso peraltro che C’è ancora domani, pronto già da fine primavera inizio estate, abbia scavallato il Festival di Venezia per finire nel calderone della Festa di Roma, continuando a perpetuare un sinistro dualismo tra qualità e quantità (Roma l’ha ovviamente raccolto perché lasciato lì…) che i due dirimpettai festivalieri italiani sembrano incarnare in maniera caricaturale.

Tre pregi. Da qualche parte abbiamo letto che C’è ancora domani ha successo perché è un film che “parla di tutti”. Ora, sbrogliato un po’ meglio il concetto (tutti chi? tutti come?), è evidente che un pregio enorme di C’è ancora domani sta proprio in questa sintesi valoriale nazional popolare dove la riconoscibilità specchio della sciura milanese di Porta Venezia si può amalgamare naturalmente con quella sora romana del Testaccio. C’è ancora domani, sceneggiato dalla Cortellesi e dal duo Furio Andreotti (factotum cine-tv-teatrale della Cortellesi) e Giulia Calenda (sorella del leader politico, Carlo), sembra infatti essere uscito (in)volontariamente da quelle griglie di prova che le grandi major sottopongono prima al settore marketing e pubblicità poi agli spettatori test per indirizzare un prodotto verso un target socio-culturale preciso e cospicuo di riferimento per andare sul sicuro. Un altro pregio evidente è il corpo cortellesiano messo in primo piano per oltre il 90% delle inquadrature. Lo si priva di malizia, di ammiccamenti oltre la buona educazione generica, lo si imbruttisce (Cortellesi non ha mai veramente usato il proprio corpo tout court per affermarsi nel mondo dello spettacolo) e questo fa emergere nel film, come nell’intera carriera dell’attrice romano abruzzese, una sorta di purezza talentuosa e asessuata, di slancio performativo che va oltre l’estetica e si afferma direttamente nell’etica. Infine c’è questo uso sorprendente, improvviso e nostalgico, del senso della Storia – qui il voto femminile e il voto in sé nel corso del tempo – che nel 2023, provata ogni soluzione partitica, oscilla tra una speranza utopica ovviamente annacquata e uno slancio politico collettivo degno di miglior causa ma che, in quel contesto del passato, segnala e ricorda l’intonsa idealità che ha accompagnato le grandi trasformazioni sociali del Novecento nel dopoguerra.

E tre (quattro, cinque…) difetti. C’è ancora domani, in fondo, è uno di quei trailer parodici di Maccio Capatonda allungato a misura proiezione tradizionale. L’uso che si fa degli stilemi formali distintivi del neorealismo (quando ricordo quella Roma, la ricordo in bianco e nero, ha spiegato la Cortellesi) ha lo stesso valore concettuale e procedurale dell’uso di un filtro di Instagram tra Tokyo, Moon e Willow. La struttura narrativa è superficialmente espositiva e ripetitiva, figlia di una semplificazione/snellimento dell’intreccio (e dell’intrigo) sbilanciata sul finalone a sorpresa e soprattutto tentativo dimostrativo di saper masticare con destrezza il confronto con la gloriosa naturalezza del passato poetico-industriale un po’ come se il trio Andreotti-Calenda-Cortellesi fosse il naturale procedimento degli Age-Scarpelli-Scola o direttamente dei Zavattini- Amidei-Cecchi D’Amico. Quando poi pensiamo che oggi il segno della ribellione/rivoluzione si racchiude nel recupero di una playlist didascalica pop – la fuga fuori casa di Cortellesi è contrassegnata da Bombs over Baghdad! – con Fabio Concato, La sera dei miracoli di Dalla o le canzonette popolari sanremesi pre beat, c’è solo da rimpiangere il barocchismo insinuante di un Morricone o di un Piccioni. Altri puntelli bizzarri e curiosi per non fare un film neorealista che sembra una palla li abbiamo? Sì, l’uso di coreografie meccaniche e accennate tra marito e moglie affinché non si mostrino i dettagli della violenza domestica come fossimo in un horror ma attraverso una soluzione creativamente illuminante in modo da risultare ben educati e rispettosi di uno spettatore pudico protomorettiano, ma non allontanandosi troppo dalla profondità realizzativa di uno spot.