Indi Gregory è morta questa notte e purtroppo no, non poteva andare diversamente. Della sua delicata storia vorrei parlare cominciando da un concetto che, nell’ambito del fine vita, è sulla bocca di tutti: la dignità. Beh, la dignità è data anche dalle parole che usiamo per parlare di chi è malato, dunque per prima cosa è indispensabile smettere di dire o scrivere che “il governo ha staccato la spina a/di” miss Gregory. La piccola non è un elettrodomestico: i trattamenti di sostegno che la tenevano in vita sono stati sospesi, per altro senza toccare la presa di corrente. La metafora della spina ci piace così tanto perché è immediata, semplifica una situazione estremamente complessa (dal momento che si parla di minore incapace di decidere per sé) e ci dice che “spina staccata = morte”, motivo sufficiente a farci schierare con chi vuole tenere i macchinari accesi.

Indi Gregory non era una neonata, aveva otto mesi e dunque non era più classificabile come tale. Era una bimba inglese affetta da una malattia genetica metabolica. Si trasmette in modo ereditario ed è causata dalla mutazione di un gene (SLC25A1) coinvolto nella produzione di energia all’interno delle nostre cellule. Per questo, nei pazienti con forma lieve, la malattia si manifesta con debolezza e compromissione del funzionamento dell’apparato muscolare, ma non è questo il caso. Come riportato in sentenza e sulla documentazione dell’équipe medica del Queen’s Medical Centre di Nottingham, Indi subiva anche le conseguenze neurologiche e cardiologiche dell’aciduria combinata D,L-2-idrossiglutarica: il danno al cervello progressivo (cioè le funzioni si stavano deteriorando con il passare del tempo), la mancanza di collegamento tra i due emisferi a causa di una concentrazione anomala di liquido spinale e la compromissione della regolare circolazione del sangue. Cosa avrebbe significato tutto questo ammettendo la possibilità che Indi potesse andare avanti a lungo senza sostegni vitali? Insufficienza respiratoria, malformazioni encefaliche, crisi epilettiche, gravi disabilità intellettive e dello sviluppo, scarsa o nulla interazione con il mondo esterno, alta percentuale di morte prematura nell’infanzia.

Non voglio strizzare l’occhio a tecnicismi a tratti spersonalizzanti, però è indispensabile dipingere un quadro chiaro se si vuole esprimere un’opinione e analizzare le notizie di questa settimana: al momento non esiste una terapia per curare la malattia da cui era affetta Indi Gregory. Acquisita questa informazione, ritengo opportuno tornare a riflettere su tre fatti.

– L’invito in Italia, all’Ospedale Bambino Gesù di Roma. Il 6 novembre la premier Meloni ha convocato d’urgenza un Consiglio dei Ministri per conferirle la cittadinanza e permetterle di… far cosa, in effetti? Nulla. Trasferirsi a Roma per restare legata a tutti i sostegni vitali di cui già usufruiva a Londra, ma a tempo indeterminato e gratuitamente, come previsto dal nostro sistema sanitario. Non ci sarebbe stato nessun intervento o cura miracolosa. Un trasferimento su base ideologica, quindi, infatti non è un caso che l’avvocato italiano dei Gregory sia l’ex senatore ultraconservatore Simone Pillon e che siano appoggiati dal Christian Legal Center. E chi potrebbe mai biasimare genitori e fratelli che abbracciano ogni minuscolo cambiamento scambiandolo per speranza? Io no, di certo. Il punto, però, è un altro. Il parere di ogni singolo esperto consultato dall’Alta Corte britannica è stato unanime: la condizione di Indi era irreversibile e i trattamenti a cui era legata sottoponevano il suo fragile corpo a stress e dolori che non avevano alcun beneficio a lungo termine. Ho sempre trovato fuorviante il termine “accanimento terapeutico”, poiché lascia intendere che ci sia qualcosa di “terapeutico” (cioè che si relaziona alla cura di una malattia) nelle pratiche di supporto vitale, che invece servono il solo e unico scopo – nobile, quando non sempiterno – di tenere di vita il paziente.

In una delle udienze in tribunale (9 ottobre) la famiglia Gregory dichiara che la bambina “shows no sign of serious pain”, non sembra sofferente; il 10 novembre, invece, il padre riporta in un’intervista a Vespa che Indi “è viva, si muove, si vede che soffre e sta male” e che trasferirla in Italia potrebbe darle accesso a nuovi trattamenti (falso, ndr). In queste parole confuse, a mio parere, sta tutto il peso della necessità di analizzare la situazione con una razionalità e competenza di cui non sempre un genitore disperato riesce a farsi carico. Non vi è alcun giudizio di valore in questo, solo il tentativo di essere realisti e comprendere come mai il parere del giudice e del team pediatrico sia stato così fermamente in opposizione a quello della famiglia, negando la possibilità del trasferimento al Bambin Gesù in quanto non garantirebbe il best interest di Indi.

– La morte in casa. I Gregory avevano presentato un ricorso contro una sentenza della Corte che li obbligava a procedere con la sospensione del sostegno vitale in ospedale o simili. Il ricorso è stato rigettato e sabato 11 novembre i supporti vitali sono stati sospesi in un hospice poco lontano dal Queen’s Medical Centre; all’1.45 di stanotte Indi ha smesso di respirare in autonomia. Secondo i genitori le è stata tolta la dignità di morire nella casa della famiglia a cui apparteneva. Per quanto si possa comprendere l’aspetto affettivo del nido familiare, la decisione del giudice era una risposta alla delicata condizione di Indi e alla necessità di avere tutto il supporto e l’attrezzatura necessaria in caso di complicazioni, in un ambiente sicuro e in grado di proteggere Indi da qualsiasi sofferenza.

– La motivazione. Chi rifiuta qualsiasi tipo di discorso sul fine vita, guarda al distacco dai trattamenti di supporto vitale come si guarda a un omicidio a sangue freddo. In particolare, il bias consiste nel credere che chiunque si trovi d’accordo con la decisione della Corte britannica consideri le vite delle persone con gravi disabilità non degne di essere vissute. C’è qui un po’ di confusione sulle prospettive di vita che la bambina avrebbe potuto avere. La malattia di Indi annienta il concetto stesso di prospettiva: non è di una vita come persona disabile che stiamo parlando, ma della possibilità stessa di respirare, comunicare (anche in forma non verbale), produrre pensieri. Parlare del diritto all’autodeterminazione delle persone disabili in un contesto in cui l’idea di vita nelle sue forme più basilari è compromessa e mescolata a dolori quotidiani su un corpo impossibilitato a crescere… è fuorviante e, francamente, in mala fede. La famiglia Gregory questa mattina ha dichiarato che “il servizio sanitario e i tribunali le hanno tolto la possibilità di vivere”; a toglierle questa possibilità, in realtà, è stata una malattia incurabile, per la quale ognuno è libero di attribuire responsabilità all’entità in cui crede, o di restare con l’opzione di incolpare il caso.

Non esiste un unico modo per interrogarsi sulla storia di Indi Gregory, così come per quanto grande possa essere lo sforzo d’empatia, è pressoché impossibile per chi non lo vive anche solo avvicinarsi a un dolore così insensato e assoluto. Ci sono, però, alcune piccole cose che possiamo fare come cittadine e cittadini per non essere spettatori inermi della cronaca: chiedere maggiori finanziamenti alla ricerca, imparare a valorizzare la scienza e la medicina nel discorso pubblico senza ridurle al dibattito tra opinionisti, pretendere un confronto serio e continuativo sul fine vita – anche in relazione ai minori – che non debba nutrirsi solo dello strascico mediatico dei singoli casi, ma che sia degno di attenzione ogni giorno, perché ogni giorno, che ci piaccia o no, nascita e morte sono parte della res publica.

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