Fosse stata una simulazione di dibattito – uno di quegli allenamenti oratori ai quali i candidati si sottopongono per prepararsi al vero confronto televisivo – non v’è dubbio alcuno: Sergio Massa avrebbe, dopo appena qualche scambio di colpi, cacciato a male parole il suo “sparring partner”. Troppo molle, troppo insicuro e nervoso, troppo impreparato e scialbo, quasi smarrito al suo cospetto. In sostanza: troppo inutile in vista d’una decisiva battaglia che si preannunciava senza quartiere. E che diamine! – avrebbe di certo sbraitato Massa furiosamente rivolto al suo staff elettorale – domani devo affrontare un rivale che, motosierra (motosega) alla mano, è pronto a lanciarsi contro la mia giugulare; e per temprarmi alla tenzone voi chi mi mandate? Questa spaurita mammoletta senza idee né attributi….

Per buona sorte di Massa, tuttavia, quello che, domenica sera, sotto la luce dei riflettori e l’occhio delle telecamere – nonché al cospetto d’una audience televisiva record – non era affatto un impacciato “sparring partner”, ma proprio lui, Javier Milei, il “vero” candidato, il “Trump de las Pampas”, lo scapigliato leone che, in un perenne stato di mistica (e quasi savonaroliana) esaltazione, negli ultimi anni ha messo sottosopra l’intero sistema politico argentino nel nome d’una liberistica redenzione destinata, colpo di “motosierra” dopo colpo di “motosierra”, a trasformare in legna da bruciare tutto il presente e tutto il passato. Escluso, ovviamente, quello mitico ed ottocentesco della “Argentina paese più ricco del mondo” che lui s’appresta a rigenerare. La Banca Centrale? Via! Il peso argentino? Al macero! E che al suo posto venga il dollaro Usa! Gli attuali ministeri? Via per i tre quarti, insieme alla scuola pubblica e ad un numero di istituzioni statali non molto lontano dal totale delle medesime. Il tutto ispirandosi – naturalmente nel nome della libertà “che avanza”, come recita il titolo della sua coalizione elettorale – all’esperienza di quei “Chicago Boys” che, figli delle teorie di Milton Friedman, governarono l’economia cilena negli anni, notoriamente molto liberali, di Augusto Pinochet.

Sergio Massa, esponente della corrente più moderata – o, più propriamente, malleabile e camaleontica – di quel grande, irrisolto e, presumibilmente, irrisolvibile enigma argentino che si chiama peronismo, aveva più d’una ragione per temere il confronto. E non solo, anzi, non tanto per l’insultante aggressività con cui Javier Milei s’era, fino a domenica, aperto il passo tra le rovine dell’economia argentina, quanto per il fatto che di quelle rovine, marcate da un’inflazione ormai prossima al 150 per cento, proprio lui, da quasi due anni Ministro dell’Economia, è forse non l’unico, ma certo il più visibile e vulnerabile dei colpevoli. Giusto per rinfrescare la memoria. Solo qualche mese fa nelle PASO (primarie aperte simultanee e obbligatorie) che delle presidenziali sono una sorta di prova generale, Javier Milei era riuscito a sorprendere un paese più che abituato alle brutte notizie, arrivando al primo posto con più del 30 per cento dei voti. E alla fine d’ottobre s’era quindi guadagnato – con una pressoché identica percentuale di voti, come secondo arrivato, l’accesso al decisivo “play-off” della prossima domenica.

Non le aveva mandate a dire a nessuno, Javier Milei. E ne aveva avute per tutti. Chi, tra i suoi avversari, non era un ladro, era un assassino (proprio così, “assassina”, aveva chiamato Patricia Bullrich, candidata della coalizione della destra tradizionale di Juntos por el Cambio, fantasiosamente accusandola di aver messo, nei suoi lontani giorni da “montonera”, bombe negli asili infantili). E assassini o ladri che fossero, tutti quelli che non erano con lui erano comunque “delinquenti”. Sicché questo si chiedevano i più alla viglia dell’ultimo dibattito: con quali oltraggianti aggettivi il feroce Javier Milei avrebbe aggredito Sergio Massa? Di quali delitti – senza nemmeno la fatica di doversi inventare malefatte, date le circostanze – lo avrebbe pubblicamente accusato?

E invece così, volendo ricorrere ad un tipico inizio da romanzo ottocentesco, sono andate le cose. Il classico “ignaro passante” che, domenica scorsa si fosse, casualmente, trovato di fronte ad una televisione in Argentina, avrebbe di certo notato un (altrettanto classico) “strano trambusto”. E, nel trambusto, avrebbe certo pensato questo: che, in quel confronto tra due uomini, l’accusato – ovvero il rappresentante d’un intollerabile status quo – fosse Javier Milei. E che l’accusatore – un vero e proprio implacabile Grande Inquisitore alla Dostoiévski – fosse Sergio Massa.

Capire a fondo come sia stato possibile questo capovolgimento di ruoli non è facile. Ma alcuni fattori sono apparsi più che evidenti. Sergio Massa s’è rivelato – al di là dei suoi ovvi demeriti di ministro d’un governo economicamente allo sbando ed appesantito dai pantagruelici casi di corruzione che hanno marcato gli anni del kirchnerismo – uno scafatissimo ed eloquente professionista della politica. Mentre Milei – forse per compiacere, da improvvisato “moderato”, la vecchia destra dell “assassina” Bullrich, oggi sua alleata – si è al contrario rivelato, nella pressione d’un vero contradditorio, qualcosa meno d’un dilettante. Uno scolaretto, piuttosto. Uno scolaretto giunto pateticamente impreparato al giorno dell’esame. In sostanza: fin dalle primissime battute, Sergio Massa ha perentoriamente chiamato – “por sí o por no” – Javier Milei a rispondere di tutte le idiozie (e Dio solo sa quante sono state) che quest’ultimo ha profferito nel corso dell’attività che più lo ha reso famoso in questi anni: quella di entertainer da talk-show televisivo o, per dirla con le irridenti parole di Massa, da “standapero de televisión”. E per tutto il dibattito Milei è rimasto sulla difensiva.

Un solo dato giusto per dare le dimensioni dell’ampiezza – e per molti versi dell’assurdità – della sua disfatta. Non una sola volta, mentre Massa lo riempiva di botte, Javier Milei ha pronunciato la parola “inflazione”, concedendosi a contrattacchi sporadici e perlopiù incoerenti, sistematicamente esposti alle beffarde correzioni del suo rivale. L’unica cosa buona che si può dire dell’esibizione di Milei è che, bastonato da Massa, è riuscito, almeno, ad evitare una crisi di nervi. Non si è messo a piangere davanti alle telecamere. E di questo, oggi, si devono accontentare i suoi esagitati sostenitori

Dunque: giochi fatti? Il dibattito di domenica scorsa ha davvero segnato i destini della corsa presidenziale argentina? Sergio Massa può già cominciare a preparare il suo discorso di insediamento? Nient’affatto. Tutto, domenica prossima si giocherà, a dispetto dei risultati del dibattito, lungo il filo d’un rasoio. Javier Milei ha fatto una figuraccia, ma gli analisti politici sottolineano come, a conti fatti, l’umiliazione subita ad opera d’un “grande professionista della politica” possa addirittura, paradossalmente, rafforzare – di fronte a un paese inferocito – l’immagine di outsider coltivata dallo sfidante. Dopotutto, ben al di là delle parole, l’inflazione resta l’inflazione. E Sergio Massa resta il ministro dell’Economia che quell’inflazione non ha saputo domare.

Tutto rimane aperto. Il 19 novembre l’Argentina dovrà scegliere tra la padella del peronista Massa e la (sia pur piuttosto spenta) brace dell’ “anarco-capitalista” Milei. Come finirà non si sa. Però si sa che finirà male.

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