Un maggior reddito disponibile di 600 euro a famiglia per Banca d’Italia. Addirittura 1.112 per l’Istat. Ma rispetto a quando? E soprattutto per chi? Le diverse stime e simulazioni contenute nelle audizioni di questi giorni sulla manovra hanno prodotto confusione, non aiutando a capire se e quanti soldi in più gli italiani possono aspettarsi di avere a disposizione l’anno prossimo. E, di conseguenza, da cosa nasca lo sciopero indetto dai sindacati per il 17 novembre e finito nel mirino della commissione di garanzia. Cerchiamo di fare chiarezza, puntando l’attenzione sugli interventi “a tempo” a cui sono destinati più di metà dei fondi messi in campo dal governo Meloni (per due terzi ricorrendo all’indebitamento): la proroga solo per il 2024 del taglio del cuneo fiscale già in vigore per chi ha una retribuzione lorda fino a 35mila euro e l’unificazione, anch’essa solo per il 2024, delle prime due aliquote Irpef accompagnata da una riduzione di 260 euro delle detrazioni per i contribuenti con redditi superiori a 50mila euro annui.

Il punto cruciale da tenere presente è che Bankitalia, Istat e Ufficio parlamentare di bilancio hanno utilizzato i loro modelli di micro simulazione per valutare l’impatto delle due misure rispetto a una situazione senza sgravi contributivi e con le attuali quattro aliquote. Cioè non la situazione attuale, perché la riduzione dell’aliquota contributiva di 7 punti per chi guadagna fino a 25mila euro lordi e 6 punti tra 25mila e 35mila euro esiste in questa forma già da luglio. Ed era in vigore anche nel primo semestre 2023 seppure in forma meno generosa (rispettivamente 3 e 2 punti di sgravio). Il mero rinnovo dell’aiuto, dunque, non farà altro che mantenere invariato il netto in busta paga dei lavoratori coinvolti. Per loro non ci sarà alcun vantaggio aggiuntivo. Discorso diverso per l’accorpamento dei primi due scaglioni Irpef, dopo il quale anche i redditi compresi tra 15 e 28mila euro saranno assoggettati all’aliquota del 23% che oggi si applica solo fino ai 15mila. In questo caso il risparmio fiscale sarà di 75 euro l’anno per chi ne guadagna 15mila mentre oltre i 20mila aumenterà progressivamente fino ad arrivare a 260 euro l’anno per chi ne guadagna 28mila e oltre.

Le simulazioni Istat e Bankitalia – Le simulazioni dell’Istat non scindono l’effetto dei due interventi e lo quantificano, come già detto, rispetto a uno scenario senza alcuna decontribuzione, che si è verificato per l’ultima volta nel 2021 (nel 2022 Draghi aveva infatti varato una prima riduzione di 0,8 punti saliti a 2 nel secondo semestre). L’esercizio, stando al quale la decontribuzione netta è pari in media a 1.112 euro annui a famiglia e 800 euro a livello individuale, è quindi meramente teorico: più che altro dà la misura delle perdite che le famiglie subiranno se nel 2025 non si troveranno le risorse per rinnovare il taglio del cuneo. Aiuta però a comprendere come si distribuisce il beneficio: la decontribuzione media netta vale 599 euro per il primo quintile, cioè le famiglie più povere, 940 per il secondo, 1.122 per il terzo, 1.339 per il quarto e 1.515 per il quinto, i più ricchi. L’incidenza media sul reddito familiare è ovviamente più alta per le fasce meno abbienti, ma in valori assoluti è evidente chi riceva i maggiori vantaggi.

Peraltro l’incrocio con il nuovo disegno dell’Irpef peggiora la situazione rispetto al 2023: “La minore progressività che caratterizza il nuovo disegno dell’Irpef modifica il profilo redistributivo dell’intervento di sgravio contributivo a favore delle famiglie dei due quinti più ricchi: la quota di risorse dedicate all’intervento destinata alle famiglie dei primi tre quinti di reddito si riduce complessivamente di 5,9 punti percentuali a favore delle famiglie degli ultimi due quinti, in particolare del quinto più ricco (+4,3 punti)”.

La Banca d’Italia a sua volta quantifica gli effetti sul reddito equivalente “rispetto alla legislazione vigente”, che farebbe tornare l’aliquota a carico del lavoratore a 9,19%. E arriva alla conclusione che, considerando anche le modifiche all’Irpef, l’incremento del reddito disponibile si ferma a circa 600 euro annui. Dovuti per due terzi all’esonero contributivo e per il resto all’unificazione delle aliquote.

L’Upb benefici più alti per impiegati e dirigenti – L’Ufficio parlamentare di bilancio, dal canto suo, calcola il beneficio medio della sola decontribuzione sempre rispetto alla legislazione vigente in 695 euro per ogni beneficiario: 254 per i lavoratori più poveri, con reddito fino a 8mila euro, che salgono a 898 euro nella classe tra 28.000 e 50.000 euro di reddito imponibile. Gli operai risultano la categoria con la maggiore quota di beneficiari, ma hanno un vantaggio medio di 660 euro contro gli 816 degli impiegati. Per quanto riguarda la riforma Irpef, tra i dipendenti sono gli impiegati a beneficiare della quota maggiore di risorse, pari al 35% del totale, con un beneficio medio di 193 euro. Ma “il beneficio medio più alto è ad appannaggio dei dirigenti (211 euro)”. Al contrario gli operai, che “costituiscono circa il 29% dei contribuenti, ricevono una quota di risorse inferiore, pari al 25%”, e avranno un beneficio medio di soli 89 euro. Il taglio delle detrazioni non basta a riequilibrare: chi ha poco da detrarre non viene penalizzato. Secondo l’Upb “oltre i 50.000 euro sono ancora avvantaggiati dopo il taglio delle detrazioni non sanitarie circa tre quarti dei contribuenti e chi guadagna vede ridurre mediamente l’imposta di circa 219 euro”.

Tornando alla decontribuzione, l’Upb nota che il governo nel rinnovare lo sgravio non si è curato di risolvere il ben noto problema dell’assenza di décalage: chi supera i 35mila euro di reddito perde immediatamente il beneficio. Questo “comporta una trappola della povertà in corrispondenza delle due soglie” di 25mila e 35mila euro. In che senso? “L’incremento della retribuzione di un solo euro oltre la soglia comporta, all’uscita dalla prima fascia, una riduzione dello sconto di circa 150 euro. La riduzione del reddito disponibile risulta molto maggiore, circa 1.100 euro, se la retribuzione lorda supera la soglia di 35.000 euro”. Risultato: un forte disincentivo al lavoro – conviene “restare poveri” – e un impedimento sulla strada dei rinnovi dei contratti, che rischierebbero di danneggiare una quota di lavoratori a meno che gli aumenti non siano poderosi. In corrispondenza della seconda soglia, servirebbe un incremento di ben 2mila euro annui per evitare penalizzazioni.

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