La Spagna è un paese lacerato, quasi rotto. Una frattura sociale, prim’ancora che politica: è malvista la pluralità linguistica, il particolarismo regionale esaspera e disgrega, la magistratura è svalutata se chiamata a regolare questioni aventi riflessi politici o istituzionali.
La divisione è cresciuta nelle ultime settimane, eppure sull’accordo tra la coalizione progressista (socialisti e sinistra di Sumar) del premier Pedro Sánchez e la galassia nazionalista catalana c’erano pochi dubbi. Esquerra Republicana e Junts dell’esule Carles Puigdemont hanno portato a casa la promessa della legge sull’amnistia per quei dirigenti che nell’autunno del 2017 si resero protagonisti del referendum bocciato dall’Alta Corte di Madrid e della via unilaterale per l’indipendenza.
Non c’era altra strada se non il ritorno alle urne, dopo l’infruttuosa investitura del ‘popular’ Alberto Núñez Feijóo: un nuovo fallimento avrebbe portato allo scioglimento del Congresso e al voto anticipato. Tutto si è mosso sul filo del paradosso: Feijóo, pur vincitore delle elezioni di luglio, poteva contare sull’appoggio di Vox, un alleato scomodo, da tenere quasi in disparte perché dichiaratamente antieuropeo e nemico dell’indipendentismo e financo del regionalismo. Gli ammiccamenti del leader del Pp incaricato verso i leader nazionalisti sono apparsi stucchevoli, se non surreali, perché contro di loro si è costruita l’intera campagna elettorale della destra.
Una volta fallito il tentativo dei conservatori, è toccato ai socialisti di Pedro Sánchez riallacciare i ponti con gli indipendentisti, seppure avessero condiviso la linea dura adottata dall’allora premier popolare Mariano Rajoy verso i fatti dell’ottobre 2017. Il capo dell’esecutivo ha sposato la realpolitik pagando un prezzo altissimo alle formazioni minori. L’amnistia non è l’unica concessione, è solo quella più eclatante, contro la quale in questi giorni hanno fatto sentire la voce decine di migliaia di spagnoli, nelle piazze delle principali città e, in presidio permanente, sotto la sede madrilena del Psoe.
Si è detto poco delle altre misure che la nuova coalizione di governo sarà chiamata ad approvare per ottenere l’investitura e per avere certezza di governabilità. La prima è la cessione alla Generalitat della gestione della linea ferroviaria regionale (Cercanías), seguirà l’abbattimento dei debiti locali con assorbimento degli stessi nel bilancio statale e piani infrastrutturali in Catalogna attraverso la determinazione di un nuovo equilibrio tra investimenti e Pil prodotto. Il conflitto lascia campo alla politica, con l’abbandono della via unilaterale, ma occorreranno anche maggiori risorse e trasferimenti di competenze in favore delle regioni autonome. Insomma, un film già visto negli anni ’80 quando Jordi Pujol, leader degli autonomisti, faceva valere i pochi ma decisivi seggi parlamentari per portare nei palazzi di Barcellona funzioni e flussi finanziari inimmaginabili.
Pedro Sánchez non guarda solo alla Catalogna, ha chiuso accordi con il partito delle Canarie e soprattutto con i baschi del PNV, i nazionalisti moderati ai quali ha promesso, nei prossimi due anni, il trasferimento delle competenze delineato nell’Estatuto de Gernika, una conquista fittizia rimasta per quattro decenni rinchiusa in un cassetto. I Paesi Baschi potranno, quindi, avere una propria contrattazione collettiva che si pone al di sopra dei contratti di lavoro nazionali, e un sistema previdenziale autonomo. Concessioni che rafforzano un’autonomia già spinta e che sembrano pre-costituire piccole regioni-stato, con il potere centrale che controlla principalmente politica estera e difesa.
Il tempo dirà se le misure pattuite sono strumenti utili per ricomporre una concordia spezzata o se parti di un ingranaggio che potrebbe dare il colpo di grazia alla Costituzione del ’78.