“Non si deve dimenticare ciò che succede in Ucraina”, ha ricordato Olena Zelenska, la moglie del presidente Zelensky, in un’accorata intervista al settimanale francese l’Express (9 novembre 2023), poiché l’attenzione del mondo è focalizzata sul Medio Oriente (prossimo all’esplosione), ed è manna per i russi, giacché, spiega la signora Zelenska, “l’orizzonte delle previsioni per gli ucraini è diventato troppo stretto”.

Stia tranquilla, a rimediare a questa amnesia collettiva ci ha pensato Vladimir Putin. Con il suo “abituale cinismo”, lo ha detto Christian Deloire, segretario generale di Giornalisti senza Frontiere, il presidente russo ha ravvivato le cronache del conflitto concedendo la grazia ad un combattente molto particolare: l’ex dirigente del Dipartimento per il controllo del crimine organizzato di Mosca, Sergej Khadzjkurbanov, condannato nel 2014 a vent’anni di galera per complicità nell’assassinio della giornalista Anna Politkovskaja, uccisa nell’androne di casa il 7 ottobre 2006, guarda caso lo stesso giorno del 54esimo compleanno di Putin.

Ad annunciarlo è stato Alexei Mikhalchik, il legale di Sergej, che a sua volta era stato informato dai familiari. Ha chiamato i media Baza e Rbk e ha rivelato che nel 2022 il suo assistito era stato contattato da un ente privato (si suppone il Gruppo Wagner) per uno scellerato contratto: andare a combattere in Ucraina in cambio della libertà. L’alibi è che Khadzjkurbanov sarebbe stato scelto per le sue competenze professionali, avendo lavorato negli anni Novanta in una unità delle forze speciali (Omon?). Sul fronte, Sergej avrebbe dimostrato capacità di comando, funzione che poi gli è stata riconosciuta.

Dall’inizio della guerra in Ucraina, migliaia di detenuti hanno barattato la libertà (sia pure in prima linea) firmando contratti con formazioni paramilitari, venendo utilizzati nei settori più pericolosi, di fatto utilizzati come carne di cannone. Questa spregiudicata (e disperata) politica è stata rivendicata pubblicamente dallo stesso Cremlino quando Dmitri Peskov, il portavoce della presidenza russa, rispondendo alle domande dei giornalisti che si dicevano preoccupati che migliaia di ex delinquenti potessero ritornare indisturbati a vivere tra la gente e magari a ripetere i loro crimini, disse: “Le persone condannate, comprese quelle per gravi delitti, espiano le loro colpe col sangue sul campo di battaglia”. Va’, uccidi e torni “pulito”, se sopravvivi. Secondo alcune fonti, il 70 per cento di questi combattenti ci ha rimesso la vita. E, secondo qualche testimonianza (filmata, per esempio, nel terzo documentario sulla guerra in Ucraina di Bernard-Henry Lévy, andato in onda martedì 14 novembre su France 2), mandati allo sbaraglio senza alcun addestramento.

Ma il caso di Khadzjkurbanov è ben più di una semplice “redenzione”. Al contrario, non lo è affatto. E’ uno sberleffo, un’insopportabile offesa alla memoria della Politkovskaja. Putin, infatti, ha ringraziato l’ex poliziotto per avere accettato di combattere sul fronte ucraino, e, con un decreto apposito, gli ha cancellato la pena (sarebbe dovuto uscire di prigione nel 2034, con la buona condotta nel 2030). Lui, per riconoscenza, ha accettato un nuovo contratto, stavolta con lo Stato, “da volontario”, in cui gli è stato confidato il grado di comandante. “E’ una mostruosa e arbitraria ingiustizia, una profanazione della memoria di una persona uccisa per le sue convinzioni e la realizzazione del suo dovere professionale”, hanno scritto sgomenti i familiari di Anna e i redattori (in esilio) di Novaja Gazeta, il giornale liberale per cui lavorava: un comunicato che gronda indignazione, rabbia e deplorazione.

Come si può dimenticare quel pomeriggio di 17 anni fa, quando una vicina di casa scoprì il cadavere di Anna davanti all’ascensore? Aveva fatto delle spese in centro, stava aprendo la porta dell’ascensore. Due uomini erano lì, in agguato. L’aspettavano. Sui movimenti della giornalista li aveva ragguagliati Sergej Khadzjkurbanov. L’hanno freddata con quattro colpi, sparati da una pistola Makarov – l’arma delle forze dell’ordine – abbandonata accanto al suo corpo, un gesto carico di macabre allusioni. Quasi a suggerire l’origine dell’esecuzione, perché di esecuzione si trattò.

Dall’inizio della presidenza Putin, la Politkovskaja era la 21esima vittima della mattanza che seminò morte e terrore tra la stampa indipendente. Anna era la più famosa e implacabile cronista dei misfatti di un regime feroce, corrotto e illiberale. Sulla Novaja Gazeta, e con numerosi saggi diventati bestseller internazionali, documentò le violazioni dei diritti umani, i soprusi del potere, le bugie del Cremlino, gli affari degli oligarchi ammanicati con Putin. Lei aveva svelato i retroscena della “sporca guerra in Cecenia”, quella scatenata da Putin alla fine del 1999. Prima di essere ammazzata, avevano tentato in tutti i modi di metterle il bavaglio, di intimidirla, di minacciarla, di attentare alla sua vita: aveva infatti subìto un sequestro durato 48 ore; era finita in cella diverse volte; nel 2004, per impedirle di indagare sulla controversa liberazione (costata centinaia di vite) degli ostaggi nella scuola di Beslan, l’avevano persino avvelenata.

Per il suo assassinio, dopo numerosi processi farsa, la giustizia (si fa per dire) russa aveva individuato il presunto commando composto da cinque ceceni, più Khadzjkurbanov, che aveva agito da informatore e da intermediario. L’organizzazione logistica l’aveva allestita Lom Ali Gaitukaiev, morto in prigione nel 2017 per un tumore al fegato. Suo nipote Rustam Makmudov fu riconosciuto colpevole d’aver sparato ad Anna e venne condannato all’ergastolo. Ma i mandanti non furono mai identificati, né si fece molto per individuarli. Anzi. Proprio questo scarso impegno costò alla Russia una condanna per violazione dell’articolo 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (in riferimento al “diritto alla vita”).

La Politkovskaja non aveva esitato nel criticare apertamente il potere mafioso e criminale di Ramzan Kadyrov, il fantoccio di Putin in Cecenia, e la deriva dittatoriale del presidente russo, all’inesorabile ritorno della censura di tipo sovietico che Putin sistematicamente stava attuando. Era, per il capo del Cremlino, una spina nel fianco, la coscienza di chi si opponeva alla “verticale del potere”, alla democratura maschera di un regime senza controlli. Dopo la morte della Politkovskaja, Putin dichiarò che i suoi scritti non avevano che un’influenza “insignificante” sull’opinione russa. Non valeva, per lo zar Vladimir, spendere una parola di più: l’uccisione di Anna era un messaggio chiaro e preciso contro chi non accettava il suo diktat. Altre vittime eccellenti seguirono il destino della Politkovskaja. Ne ricordo qualcuno: l’ex vicepremier Boris Nemtsov, ammazzato sotto le mura del Cremlino; il giornalista Paul Klebnikov; Natalia Estermirova, attivista dei diritti umani; l’avvocato Stanislav Markelov.

Ormai Putin stava accaparrandosi tutto l’apparato statale, a cominciare dalla Duma, il parlamento divenuto suo feudo dove poter legittimare in modo farlocco le sue iniziative legislative. La giustizia, dove magistrati compiacenti fanno piazza pulita degli oppositori comminando pene interminabili con accuse inventate (vedi il caso di Alexei Navalny). Come previsto da Anna, il regime di Putin è diventato anno dopo anno sempre più autoritario e personale. Gli oligarchi si sono sottomessi, i più riottosi eliminati o emarginati, lo sfruttamento delle risorse naturali (gas, petrolio, metalli, oro, diamanti) nelle mani di pochi fedelissimi, la burocrazia statale (lo strumento del potere) passata dai 700mila funzionari che c’erano sotto l’Urss a un milione e 700mila già nel 2009, nonostante la popolazione fosse diminuita del 35 per cento. I governatorati regionali si sono adeguati, divenendo le filiali periferiche del Cremlino ed esercitando il più ferreo controllo politico della popolazione, i “siloviki”, ossia i membri “della forza” (gli operatori della sicurezza: polizia, guardie di frontiera, servizi segreti, militari) a garantire la gestione del potere e la repressione, con intimidazioni e assassinii se necessario. Questa nuova “nomenklatura” si è arricchita sulle spalle di una nazione che si era illusa di aver raggiunto libertà e parvenza di democrazia.

La visione di Putin – smascherata da Anna Politkovskaja – “veniva da lontano”, scrive Orio Giorgio Stirpe sul recentissimo saggio Gli errori di Putin in Ucraina: una guerra a tutti i costi”, edito da Mimesis (agosto 2023, 222 pagine, 18 euro, peccato manchino l’indice dei nomi e la bibliografia). L’autore ritiene che l’ascesa di Putin vada letta anche secondo “la logica conseguenza di un progetto perseguito con determinazione fin dal 1989, quando un tenente colonnello del Kgb dovette abbandonare per sempre la Repubblica Democratica Tedesca e rientrare in un’Unione Sovietica alla vigilia del collasso. Il suo progetto, perseguito con lucida determinazione, violava tutti i principi dell’ordine internazionale faticosamente costruito a partire dal secondo dopoguerra, ma questo per lui era irrilevante, l’unica cosa che realmente contasse era rimediare alla ‘grande catastrofe’ geopolitica costituita dalla caduta dell’Urss”.

A prescindere dai giudizi sulle cause che hanno portato Putin ad attaccare e invadere l’Ucraina, va rilevata la sostanziale differenza fra la natura dei sistemi decisionali dell’Occidente e quelli della Russia putiniana, così come di ogni altra autocrazia del mondo – quella che Bernard-Henry Lévy definisce “l’Internazionale del peggio”, una coalizione dei nichilisti: Russia, Iran, Turchia, Cina, Corea, Hamas… Va altresì ricordato che nella mentalità strategica di Putin, il fatto che la Nato (cioè gli Usa e i suoi alleati europei) avesse raggiunto la supremazia nel Vecchio Continente fin quasi ai confini russi si traduceva in una minaccia per l’esistenza della Russia stessa, e questo si combinava anche con l’atavica (ma ingiustificata) angoscia dell’accerchiamento che da sempre ha caratterizzato la storia imperiale russa, quella sovietica e quella putiniana. Per il capo del Cremlino, si trattava quindi di una nuova Guerra Fredda, con la differenza che secondo lui gli avversari di Mosca avevano ottenuto slealmente un vantaggio, in barba agli accordi di Yalta e a quelli successivi alla caduta del Muro di Berlino.

Questa, in soldoni, una situazione che la Politkovskaja aveva captato fin dall’inizio della presidenza Putin, cominciata in modo soft, un “inganno” cui Anna non aveva mai creduto. Lei era consapevole che il mondo stava entrando in un periodo di caos, di confusione, di conflittualità apparentemente regionali (come quello della seconda guerra cecena, le cui modalità si sono poi riprodotte in Ucraina). Le ideologie imperialiste, nazionaliste e religiose avrebbero preso il sopravvento, per questo la giornalista aveva denunciato il totalitarismo, il nazionalismo e le ideocrazie celate dietro l’operato di Putin e della sua cricca. La grazia concessa al complice dei killer di Anna rientra in questo contesto di assolutismo (o quasi).

La tesi di Timothy Snyder, professore a Yale, specialista dell’Europa orientale e autore di saggi magistrali, è che il presidente russo non si preoccupa più degli interessi del suo Paese, giacché li considera ormai sotto ferreo controllo, bensì del proprio “mito eterno”. Sogna di restare nella memoria come uno dei grandi di Russia, al fianco di Pietro il Grande, Caterina II e Stalin. Un’ossessione, quella della “politica d’eternità”, messa in discussione per prima dalla Politkovskaja e per questo meritoria d’essere eliminata (le opposizioni russe hanno sospettato di Kadyrov, ma il presidente ceceno ha ovviamente sempre negato qualsiasi coinvolgimento).

Se l’Occidente dal 1989 ha condotto una “politica dell’inevitabilità”, perché l’idea dominante è che non ci fosse alternativa alla democrazia, la Russia replicava con la politica che piazza una nazione in una storia ciclica di vittimizzazione: “Il tempo è non più una linea verso il futuro ma un cerchio che riporta senza sosta le medesime minacce del passato. I russi hanno così cessato di credere nell’avvenire, che si è trovato abolito a profitto del passato. E questo passato mistificato non è considerato se non sotto il prisma di una Russia innocente che non smette di fronteggiare le minacce esterne”.

Per Putin, è la Storia a giustificare le sue mosse. Le sue scelte. Quelle grandi, come la guerra, e quelle piccole, come la grazia a Sergej Khadzjkurbanov. Ed è seguendo il solco di questa traccia ideologica che Putin prepara la sua rielezione nel 2024, lanciando il 4 novembre scorso la campagna “È la nostra famiglia”, concetto che parte dal basso e arriva ad abbracciare tutta la nazione e tutti i suoi abitanti, cioè i suoi figli, in un impeto e in un’enfasi populista, la cifra psicopatriottica che gli permette di combattere l’Occidente (il Grande Nemico) come una sorgente permanente di minaccia spirituale.

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