Le parole di Salvini contro lo sciopero di venerdì prossimo sono quelle di un capetto aziendale organizzatore di crumiri. La sua precettazione ripropone l’arbitrio istituzionale dei regi prefetti. Abbiamo un vice presidente del Consiglio che imita la ministra Braverman, appena cacciata dal governo di destra britannico di Sunak, perché troppo sfacciatamente reazionaria. Tuttavia non dobbiamo fermarci al teatrino della politica italiana e alla costante gara di fascismo che si svolge tra le varie anime del governo Meloni, che così tentano di nascondere che stanno semplicemente obbedendo alle direttive di Draghi e delle politiche di austerità.

Salvini insulta chi sciopera perché si comporta da povero bulletto capace di peggiorare la legge Fornero, ma l’attacco al diritto di sciopero in Italia viene da ben più lontano. Sono trent’anni che la condizione di lavoro e i salari peggiorano, anzi sprofondano, ma il disastro di oggi è stato programmato da leggi e decisioni prese dai governi e dalle imprese, con il consenso della maggioranza del sindacalismo confederale, nei primi anni Novanta.

Nel 1990 fu varata, con l’accordo dei principali partiti e delle grandi confederazioni sindacali, la legge 146 che disciplinava il diritto di sciopero nei servizi pubblici. Quella legge poneva pesanti limiti all’azione sindacale, limiti superiori a quelli esistenti in tanti paesi occidentali. Poi nel corso degli anni una interpretazione sempre più estensiva dei vincoli di legge, operata dalla figura cardine da essa istituita, quella del “garante”, ha spesso annullato il senso stesso dello sciopero nel sistema dei servizi.

In Germania i lavoratori dei trasporti hanno ottenuto rilevanti risultati con scioperi continuati e che coinvolgevano sia i treni che gli aerei che i servizi urbani. A Londra lo stesso è avvenuto per la metropolitana, bloccata per più giorni dalla lotta dei suoi dipendenti. In Francia abbiamo tutti visto settimane di blocco dei servizi elettrici nella protesta contro la legge “Fornero” di Macron.

Bene, tutti questi scioperi, per durata o “addensamento” per usare il linguaggio ufficiale della commissione di garanzia, in Italia sarebbero illegali.
Anno dopo anno la commissione ed il suo presidente hanno ridotto gli spazi per gli scioperi, fino a ad arrivare ad una sorta di giudizio arbitrario sulla loro stessa legittimità. Nel nome degli interessi degli utenti, che poi son sempre di più diventati quelli dell’impresa e degli affari. Il risultato sociale è stato ovvio: i contratti dei servizi pubblici non sono più stati rinnovati alle loro scadenze; e questo progressivo e sempre più lungo periodo di vacanza contrattuale ha comportato perdite salariali disastrose per il lavoratori. Senza che essi potessero rispondere con lotte adeguate alla inadempienza delle controparti.

Per altre vie il sistema anti sciopero si è esteso anche alla contrattazione privata. Già il patto di concertazione del 1993 prevedeva di introdurre nel rinnovo degli accordi le cosiddette “ clausole di raffreddamento”, cioè periodi nei quali non si poteva scioperare, ma solo discutere al tavolo. Questo naturalmente non solo comportava uno squilibrio tra le parti, perché quella imprenditoriale continuava ad agire mentre quella sindacale poteva solo esporre le sue buone ragioni. Ma soprattutto il raffreddamento comportava un complessivo rallentamento dell’azione rivendicativa, che spesso veniva bloccata proprio nel momento in cui le condizioni di mercato favorevoli avrebbero reso più incisivo lo sciopero.

Con il contratto separato imposto nel 2011 da Sergio Marchionne ai lavoratori della Fiat, si definirono nuove clausole anti sciopero, legando la stessa legittimazione sindacale alla loro osservanza. Accetti e fai rispettare da tutti i tuoi iscritti il divieto di sciopero? Allora avrai diritto alla rappresentanza, altrimenti sarai fuori. Le “clausole Marchionne” si sono poi estese a quasi tutti i contratti sottoscritti da Cgil-Cisl-Uil.

C’è un rapporto diretto tra la caduta dei salari degli ultimi trent’anni, la peggiore tra i paesi Ocse, e la progressiva limitazione del diritto e soprattutto dell’efficacia dello sciopero. Senza conflitto sociale il potere economico decide quello che vuole e le buone parole non lo commuovono. Se negli anni 60 e 70 del secolo scorso le grandi lotte dei lavoratori avevano fatto progredire tutta la società, gli ultimi decenni hanno visto riduzione del conflitto e regressione sociale procedere assieme.

In Italia non ci sono troppi scioperi, ma troppo pochi e soprattutto più scioperi simbolici che reali. Il prossimo 17 novembre ci saranno lo sciopero dei lavoratori pubblici per il contratto, proclamato da tempo da Usb e sostanzialmente ignorato dai mass media, e quello contro il governo di Cgil e Uil. È sicuramente positivo che le lotte riprendano, e che più sindacati scioperino nello stesso giorno, invece che farsi concorrenza tra loro. Ma se si vuole davvero risalire la china dal fondo in cui è precipitato il lavoro, bisogna che lo sciopero torni ad essere efficace, a colpire interessi, a farsi sentire davvero nei suoi effetti.

È positivo che Cgil e Uil, non la Cisl sempre più sindacato di governo, ora sperimentino quegli attacchi del potere che nel passato sono toccati alle minoranze sindacali radicali, spesso con il consenso del sindacalismo confederale. Ma questa rottura deve essere solo un passaggio per giungere ad una rottura più ampia e duratura. I lavoratori americani dell’auto hanno conquistato un contratto storico ricorrendo a tutte le forme di lotta più radicali, dai picchetti, ai blocchi della produzione e delle merci. Così sono riusciti a mettere in ginocchio Ford, General Motors e Stellantis. Questo si deve fare anche in Italia, bisogna ricostruire la forza e l’efficacia del conflitto; cioè deve saltare la cappa anti sciopero che dura da trent’anni.

A quel punto gli insulti di Salvini si mostreranno ancora più ridicoli di quanto non siano oggi.

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