In Italia ci sono più di 20mila minori stranieri non accompagnati (Msna) e la maggior parte di loro sono ragazzi adolescenti. È uno dei numeri più alti mai registrati dal 2015. Almeno 12 al giorno scappano dai centri e scompaiono. La situazione dei minorenni migranti in Europa è una delle questioni più urgenti di oggi. “Perdersi in Europa senza famiglia” è il libro scritto per Altreconomia da Cecilia Ferrara e Angela Gennaro, due giornaliste del gruppo Lost in Europe – un pool di 28 giornalisti di 14 Paesi – che si occupa di non perdere traccia delle storie di questi ragazzi e ragazze, anche molto piccoli, troppo spesso invisibili in Europa. Un lavoro di giornalismo investigativo e collaborativo per rispondere a domande cruciali: quali sono le rotte che utilizzano i minori stranieri non accompagnati per raggiungere l’Europa? Quali sono i pericoli che corrono? L’Unione europea è davvero in grado di accoglierli e proteggerli?

Con una scrupolosa raccolta dati raccolti in 30 Paesi europei e analizzati da esperti e data journalist, Lost in Europe ha scoperto che almeno 18mila minori migranti non accompagnati – 17 al giorno – sono scomparsi dopo essere arrivati in Europa tra il 2018 e il 2020, sollevando serie domande e dubbi sulla misura in cui i Paesi europei sono in grado di (o sono disposti a) proteggere minori migranti non accompagnati. Il libro attraverso la voce delle due autrici, fa luce su come e perché i minori stranieri non accompagnati scompaiono e su cosa l’Unione Europea mette in atto per proteggerli. Secondo l’Unicef – si legge nel libro – almeno 289 bambini sono morti o scomparsi nel solo 2023 cercando di attraversare la rotta migratoria tra le più pericolose al mondo, quella del Mediterraneo centrale, con una media di 11 bambini morti o scomparsi ogni settimana; quasi 2 al giorno. Un dato inquietante. “Già da questi dati, siamo condannabili sul piano morale e politico per sempre. Dal 2018 sono circa 1.500 i bambini morti o dispersi mentre cercavano di arrivare dalle coste nordafricane in Europa, spesso in Italia o in Grecia”, sottolineano le autrici Cecilia Ferrara e Angela Gennaro. “I bambini e le bambine che si mettono in viaggio sono i più vulnerabili e i più invisibili, e le loro storie sono sempre passate in secondo piano, perché meno interessanti anche per un eventuale utilizzo politico. La Convenzione per i diritti dell’infanzia e le leggi europee e nazionali dovrebbero garantire il diritto inviolabile, e rafforzato, all’accoglienza proprio a chi è minorenne non accompagnato. Ma gli Stati sono spesso inadempienti”.

Le prefazioni sono di Duccio Facchini e di una delle fondatrici di Lost in Europe, Geesje van Haren, l’introduzione di Marco Omizzolo, le postfazioni di Isabella Mancini e Ornella Fiore. Con un contributo di Qali Nur e Geesje van Haren dai Paesi Bassi e, in appendice, la Legge Zampa (2017), nata con l’obiettivo di mettere a sistema il percorso di accoglienza per i minori stranieri non accompagnati, attraverso le parole della senatrice Sandra Zampa, già sottosegretaria alla Salute, e Carla Garlatti, Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza.

Il libro sarà presentato sabato 18 novembre a Milano nell’ambito degli eventi di Bookcity. L’evento sarà alle ore 18 presso Libreria in Cerca di Guai (via Jacopo Palma) in collaborazione con Mediterranea Saving Humans

Milano, gli invisibili in città

È delle città come dei sogni: tutto l’immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure.
Marco Polo in “Le città invisibili” di Italo Calvino

La strada e le istituzioni
Nel video si vedono dei piedi con delle scarpe da ginnastica nere, pantaloni neri sbiaditi, un filo azzurro che passa sopra un piede. Le gambe sono appoggiate a una sbarra di metallo, c’è un rumore intenso, potrebbe essere il motore di un aereo o di una nave. Il telefonino si alza, ma ancora non si capisce bene dove siamo, uno scheletro di ferro e l’aria che scorre, sembra per un attimo di essere in volo. Il telefonino si abbassa e finalmente è chiaro: l’asfalto scorre veloce sotto di noi e la ruota di un camion gira alla stessa velocità. Il telefonino torna sulle sbarre che stanno sotto il camion e la camera si gira verso chi lo tiene: un ragazzo, la testa piegata in una posizione innaturale per via del poco spazio, una faccia sbarazzina, capelli a spazzola e due baffetti poco credibili che guarda in camera e per un secondo sorride. Perché finalmente ce l’ha fatta, dall’Afghanistan sta arrivando in Europa. Ha 16 anni e lo chiameremo Ahmad.

“Quando sono andata a prenderlo dopo la segnalazione mi sono trovata davanti uno spazzacamino. Era nerissimo, pieno di fuliggine, di non so cosa. So solo che quel giorno non avevo la macchina, abbiamo dovuto prendere i mezzi e in metro con questo ragazzino tutto sporco mi vergognavo tantissimo, gli ho detto: ‘facciamo almeno finta di non conoscerci!’. Senza contare l’ansia di dover entrare nel mio condominio con questo qua”. Fausta Omodeo è una ex professoressa universitaria di Biochimica. Quando è andata in pensione si è messa a fare volontariato nel progetto Arca, una realtà storica di Milano per i vulnerabili della città e si è resa conto che c’era un mondo di persone che sfuggivano ai servizi, transitanti o invisibili. Persone che arrivavano “in Centrale” a volte con un numero di telefono in tasca, a volte senza nulla, e rimanevano per strada. Con “le sue amiche”, come dice lei, Fausta si è inventata un servizio di strada con alcune case di emergenza: la sera alla Stazione di Milano sono sempre in due o in tre, a cercare persone, principalmente migranti, in difficoltà. Nel 2020 sono diventate un’associazione, Reti Milano, che continua a fare servizio in strada, ma che riesce a dialogare con il Comune e tutti i servizi che si occupano di migrazione e di primissima accoglienza in città.

Mantengono comunque lo spirito garibaldino che le ha fatte iniziare e nell’eventualità di casi delicati, minori o famiglie con bambini, piuttosto che lasciarli per strada si attiva una chat per trovare un riparo temporaneo. Ahmad aveva provato già dieci volte a saltare il muro del porto di Patrasso, in Grecia, una volta era anche stato morso dai cani delle guardie. “Gli ho fatto presente che quello che aveva fatto era terribilmente pericoloso”, racconta Fausta, “ma lui mi ha risposto ‘Ho mia madre e tre fratellini a Kabul che dipendono da questo viaggio, fallire non era un’opzione’”. Fausta mostra anche la foto del ragazzo “dopo la doccia”: con una maglietta bianca, senza baffi e con le orecchie leggermente a sventola sembra ancora più piccolo, ma continua a sorridere. Oggi Ahmad è in Germania, sta seguendo un percorso di integrazione e il suo viaggio è stato effettivamente un successo, ma così non è per molti minori che arrivano a Milano. Da mesi ormai la situazione nella capitale morale d’Italia, per i minori stranieri non accompagnati, è fuori controllo. Ogni mattina a viale Sarca, dove si trova il Centro servizi accoglienza Msna del comune di Milano, si presentano decine di minori stranieri che sperano di trovare posto in una comunità e che per giorni si vedono rispondere “no”. “Non capisco tra l’altro perché li devono far venire ogni mattina in viale Sarca, che è in periferia, invece di avvertirli via telefono che si è liberato un posto”, tuona Fausta. “Mi hanno risposto che lo fanno per ‘monitorarli’ e per vedere chi è davvero interessato a rimanere. Che discorso è?! Dopo un po’ è normale che uno si scoraggi e se ne vada”. Succede infatti che a un certo punto i minori cerchino posto autonomamente in altre città. “È successo che ci abbiano chiamato da Como o da Roma per chiedere aiuto. A Roma, un ragazzo ci ha chiamato e lo abbiamo mandato da Baobab Experience, al Verano, e loro gli hanno trovato una collocazione”. A Como tre minorenni ivoriani hanno dovuto aspettare una settimana. “Ogni giorno alle cinque dicevano loro ‘tornate domani’, quindi la prima notte hanno dormito in strada, poi ci hanno chiamato e, grazie a una rete di solidali, abbiamo trovato un posto sicuro per dormire”. “La legge Zampa stabilisce che siano i comuni dove vengono rintracciati i minori a doversene fare carico”, spiega Barbara Lucchesi, assistente sociale del servizio Msna del Comune. “Quindi, a differenza del sistema che riguarda i migranti adulti, non è previsto un meccanismo di redistribuzione gestito dal governo centrale. La legge dice anche che per i primi 30 giorni i Msna dovrebbero essere accolti in centri di prima accoglienza governativi, ma nel caso di Milano questo non avviene, perché la Prefettura non ha aperto nessun centro di questo tipo in città o in regione, per cui il Comune si occupa sia della prima che della seconda accoglienza”.

I centri di prima accoglienza del Comune sono tre, per un totale di 110 posti; poi ci sono 400 posti Sai autorizzati dal governo per la città di Milano. I minori in carico sono però molti di più, circa 1.300. Finiti i posti Sai, il Comune ha collocato i ragazzi in più nelle comunità educative convenzionate, ovvero le comunità per minori in difficoltà: tutti, quindi anche italiani allontanati dalle famiglie di origine. “Il problema è che anche la disponibilità di queste comunità è a oggi satura”, spiega Barbara Lucchesi, “quindi il Comune di Milano ha dovuto collocare questi ragazzi in strutture fuori città o anche fuori regione, pur mantenendo la titolarità del loro percorso di integrazione”. Questo significa farsi carico sia dei costi nella struttura ma anche di quelli del viaggio per gli assistenti sociali o gli psicologi che da Milano vanno magari a Udine per seguire questi minorenni. Su 1.300, circa un 30 per cento sono fuori città o fuori regione.

“Nel 90 per cento dei casi i minori, grazie al passaparola, si pre sentano perlopiù in modo spontaneo nella struttura comunale dove è attivo il filtro per un primo screening delle necessità (il centro in Viale Sarca)”, continua l’assistente sociale. “Il restante 10 per cento viene rintracciato dalle forze dell’ordine o attraver so gli ospedali o le associazioni che collaborano col Comune”. Una volta collocati nelle strutture comincia il percorso di integrazione, che è differenziato sulla base dell’età dei ragazzi: si attivano i corsi di italiano, li si inserisce nelle scuole dell’obbligo e, se sono più grandi, li si avvia verso corsi professionalizzanti. In realtà a decine restano fuori dal sistema. “Sono soprattutto egiziani, che sono quelli che vogliono restare perché la comunità di riferimento è ampia a Milano”, aggiunge Fausta Omodeo. “Si aggirano attorno alla stazione perché lì ci sono le associazioni che danno da mangiare, ma è inevitabile che finiscano in brutti giri perché quando non hai un euro in tasca, se arriva qualcuno e ti dice: ‘Se mi fai questa cosa ti do 50 euro’ è molto probabile che tu la faccia”. Nel 2020 l’arresto di cinque ragazzi egiziani, un maggiorenne e gli altri minorenni, dediti a spaccio e rapine, ha svelato il fenomeno in città. “C’è un problema di fondo, che accomuna molti di questi minori: hanno legami con conoscenti o parenti che li spingono a rifiutare l’aiuto del Comune e a cer care invece un modo più o meno lecito di guadagnare soldi”, raccontava nel 2020 Barbara Lucchesi.12 Secondo alcuni report giornalistici, sono fino a 300 i minori stranieri che dormono in strada, ai Bastioni, Porta Venezia, in edifici abbandonati.13 “La scorsa settimana abbiamo intercettato questi due ragazzi della Costa d’Avorio appena sbarcati a Taranto (nell’hotspot, NdA.). Non so come siano arrivati, forse sono saltati su un treno sen za pagare un biglietto”. Due 15enni, secondo la referente Reti Milano, uno con un ascesso al dente non curato. “Erano tre giorni che questi due vagavano per la città. Questo con il mal di denti lo abbiamo dovuto portare dal dentista che gli ha tolto due denti. Non c’era altro da fare”. I due ragazzi agli operatori chiedono: “E ora dove andiamo?”. Fausta suggerisce la Francia, visto che parlano la lingua ma i ragazzi rispondono che no, loro detestano la Francia. “Perché ha distrutto il nostro Paese, non ci metteremo mai piede”.

Restare e diventare adulti a Milano
“Il problema non è tanto il flusso intenso”, spiega Valentina Polizzi, responsabile minori stranieri non accompagnati di Save the Children, “ma il fatto che arrivano tanti ragazzi, prevalentemente egiziani, che tendono a restare: non essendoci il ricambio che c’era prima, ci sono meno posti”. Secondo Save the Children dal dopo Covid-19 i minori che arrivano vogliono restare a Milano. Almeno il 50 per cento dei Msna è di nazionalità egiziana, attirato appunto anche dalla forte comunità che risiede qui. “Arrivano a Milano”, continua Polizzi, “perché sanno che lì c’è il cugino, il vicino di casa, persone che conoscono ma che allo stesso tempo non hanno la possibilità di tenerli con loro o di star loro dietro”. Le famiglie allargate sono tra l’altro a volte una rete di salva taggio ma la fonte di sfruttamento primaria: qualcosa che dal ragazzo non viene percepito neanche come tale. “Quando ho iniziato a lavorare, nel 1994, 1995 c’erano soprattutto minori dal Marocco – con un flusso ben strutturato – che vivevano di economia di strada. Poi i ragazzi albanesi, in genere con storie di sfruttamento alle spalle, e poi i rumeni, molti rom che a loro volta vivevano la strada. Quello che succede con i minori non si può generalizzare, dipende dal periodo storico in Italia e da quello che accade nei paesi di provenienza”. A parlare è Massimo Conte, ricercatore e formatore di Codici ricerca e intervento che a Milano è un’istituzione per il lavoro sociale su infanzia e adolescenza. “L’economia di strada è tutto ciò che sta tra l’ille galità e l’informalità, per esempio per i ragazzi marocchini era principalmente spaccio di hashish: all’epoca si ebbe quasi una sostituzione tra italiani e stranieri perché c’era stato proprio un rimescolamento delle filiere di strada e di lavoro”. Ma l’economia di strada è anche la prostituzione maschile o femminile ed economie connesse a furti o ricettazione, continua il ricercatore. I luoghi sono quelli di aggregazione principali, sia il Duomo o la Loggia dei mercanti sia i luoghi di ritrovo dei minori stranieri non accompagnati come il centro aperto 24 ore su 24 a via Zendrini. “L’allarme sociale a volte viene usato dalle politiche pubbliche”, continua Conte, “anche con dei numeri di arrivi che erano abbastanza attesi, non ci sono picchi così clamorosi. Invece si crea preoccupazione proprio perché il sistema di accoglienza è inconsistente, è un colabrodo e non genera processi di inclu sione virtuosi”. La percezione è quindi che questo fenomeno metta a dura prova posti come Milano e Roma, che pur non essendo città di frontiera sono all’interno di processi di mobi lità secondaria, quella migrazione verso luoghi che sembrano offrire più opportunità. E quello della migrazione dei minori, precisa Massimo Conte, è un processo di rete. “I minori, come chiunque, tendono ad andare nelle città dove possono avere una rete di conoscenze, che possa consentire di rispondere ai bisogni della quotidianità, al progetto migratorio o a quello di vita”. Ma nonostante la buona volontà degli operatori e delle operatrici, se le strutture sono sovraffollate, se si percepisce l’emergenza, il ragazzo – che, vale la pena ricordarlo, è in età adolescenziale – sta male e questo genera disagio e sofferenza. Senza contare che se dall’accoglienza non si passa al lavoro e al guadagno, percepisce il suo viaggio come un fallimento. “Qualunque sia la motivazione della partenza”, dice la ricercatrice, “che sia la fuga da una calamità naturale, da una persecuzione politica o religiosa, o una scelta di investimento familiare, in ogni caso ci si mette in viaggio con la speranza di avere una vita migliore. Se la vita migliore non si realizza e si cristallizza in processi di accoglienza che non generano mai un’inclusione che renda autonomi, allora è più facile scivolare in atteggiamenti di chiu sura o di rottura con il contesto di accoglienza”. Il successo del percorso di questi ragazzi, insomma, riguarda l’intera società.

Mohamed
Siamo 5 fratelli e sorelle, io sono il più grande. Ogni giorno mio padre e io andavamo in campagna a lavorare e tornavamo con cibo che ci bastava per un giorno. Il nostro è un piccolo villaggio vicino Mansura, in Egitto, e uno dei nostri vicini aveva un figlio che aveva fatto il viaggio. Mio padre continuava a dirmi “ma lo sai che è pericoloso e molti muoiono?” e io rispondevo “Lo so papà, ma vedi come stiamo messi qui? Cosa succede se uno di noi si ammala? Non riusciamo a portare da mangiare in tavola”. Quindi abbiamo pagato a un vicino 1.000 euro per darli a un trafficante che mi ha portato in Turchia, sono andato in aereo con lui, avevo sedici anni e non sapevo nulla di aeroporti o passaporti. Una volta in Turchia mio padre ha pagato altri 1.000 euro. Sono stato un anno con i trafficanti e ho provato a partire 26 volte prima di riuscirci. Dopo il primo viaggio in cui sono sopravvissuto per miracolo, restando tutta la notte in mare aggrappato a un bidone prima che arrivassero i soccorsi (siamo sopravvissuti in cinque a quel viaggio), mio padre mi ha pregato di tornare in Egitto. Io gli ho detto “Ma come facciamo, ti sei indebitato per mandarmi qui” e lui diceva “Non importa mi faccio due anni di prigione ma almeno tu vivi” e io ho risposto “No, papà, se tu entri in prigione non esci più”. Quindi ho riprovato e ogni volta la Guardia costiera greca ci riportava indietro. Fino a quando ce l’ho fatta, con un viaggio di sette giorni; la barca era piccola ma non ho avuto paura. Sono arrivato in Calabria, lì sono stato in un centro per minori fino a che non l’hanno chiuso. Semplicemente mi hanno detto che sarebbe diventato un albergo e io ero per strada. Ho pensato: se devo dormire per strada, vado a dormire per strada a Milano!

Ho preso un treno e sono arrivato a Milano, provavo a parlare con la gente ma nessuno mi capiva perché parlavo calabrese, fino a che non ho trovato un calabrese che mi ha portato in un posto dove poi mi hanno messo in un centro (centro di prima accoglienza). C’era questa signora, la chiamavamo Mamma Carmen (Casa Testi), sono stato lì tre mesi e poi Andrea è venuto a prendermi e mi ha portato nella sua comunità (Casa Davanzati).

Ora sto lavorando come muratore, tutto regolare, per una cooperativa. Rifare tutto dall’inizio? Ancora non lo so, vediamo. Mohammed ha 18 anni e mezzo, si racconta tramite video chia mata in pausa dal lavoro. Ha fatto prima il cartongessista e ora il muratore: “Sto facendo una facciata”, racconta. Eppure alla domanda “lo rifaresti da capo?” ancora non lo sa. “Tra l’altro ha una storia dal punto di vista legale complicatissima”, racconta Andrea Piombo, operatore di Sa (Spazio aperto servizi) che gestisce la comunità per minori stranieri Casa Davanzati che lo ha ospitato per vari mesi prima che venisse trasferito in un appartamento con altri ragazzi. Mohammed infatti ha avuto un passaporto “fatto” dai trafficanti ma con un anno di età in più, e quando lo ha recuperato dalla basista in Turchia (pagando dall’Italia) gli operatori si sono resi conto che l’unico documento che aveva smentiva la sua minore età. “Siamo riusciti a fare il prosieguo amministrativo”, dice Andrea Piombo, “ma sarà più difficile fare il secondo passo di conversione del permesso di soggiorno”.

Il prosieguo amministrativo è la richiesta al tribunale dei minori di prolungare il soggiorno per minore età di un ragazzo o ragazza per completare il proprio percorso di integrazione. In seguito può essere convertito in permesso di soggiorno per lavoro. Ma a Mohammed hanno cancellato la prima parte del permesso di soggiorno per minore e per lui sarà più complicato. “Eppure è stato se vogliamo ‘fortunato’”, riflette l’operatore, “perché non è passato dalla Libia. Alla fine tutti quelli che arrivano, in fondo, hanno avuto un briciolo di fortuna”.

Casa Davanzati è un Sai dove arrivano ragazzi che hanno passato un periodo in prima accoglienza, ovvero dove vengono mandati “dalla strada”: il percorso è diverso per ciascun ragazzo, dipende dal livello di conoscenza della lingua e da quello di fragilità emotiva. E quanti riescono a “farcela”, a poter dire che il loro processo migratorio è un successo? “Dipende tantissimo”, continua Piombo. “Per esempio Mohammed viene da una famiglia poverissima, analfabeta ma lui fin dall’inizio si è dimostrato educato e attento. Aveva voglia di imparare nonostante fosse molto difficile per lui”. Il ragazzo quindi deve avere la determinazione necessaria. “Noi mettiamo dei semi, se facciamo bene il nostro lavoro, la pianta nasce e cresce forte. Poi però dipende anche dalle circostanze esterne, dal vento e da quanto reggono le radici”.

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