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NBA Freestyle – Come stanno i Lakers? L’altalena gialloviola e la LeBron dipendenza

Pensieri in libertà (e con libertà di pensiero) sulla settimana NBA

Los Angeles Lakers: come va?
Come stanno i Lakers? Insomma, potrebbe andare decisamente meglio. Le partite sono ancora troppo poche, ma qualche riflessione si può iniziare a impostare. La squadra continua a essere stra-dipendente da Lebron James. Il Prescelto sembra l’unico in grado di creare con continuità dal pick-and-roll. Tiene il palleggio, va in entrata, si arresta e tira, o spesso trova il compagno sul perimetro per un tiro in spot-up con le sue consuete mani laminate al diamante. Quando è in campo, il flusso di gioco è migliore. Si tratta di Lebron, è del tutto normale. Se non fosse che il Re di primavere sulle sue (possenti) spalle ne conta ormai 39. Non è che non possa fare più quello che faceva prima (giovedì notte, nel disastro contro i Kings, James ha fatto una tripla-doppia clamorosa…). Tuttavia, deve ridurre il minutaggio in regular season, pena la fine del carburante una volta arrivati ai playoff o l’incremento del rischio di problemi fisici. La soluzione potrebbe essere un Anthony Davis che dica qualcosa del tipo “ragazzi, da adesso ci penso io, citofonatemi se volete un nuovo primo violino…”. Utopia, pura utopia.

Davis non ha il piglio da leader, ormai dopo 11 stagioni in NBA si può tranquillamente affermare. Avrebbe tutto per essere un crack sia in attacco che in difesa. Ma è troppo discontinuo (a volte pare un top 5 NBA, altre un semplice role player), sembra nascondersi nei momenti cruciali, è spesso molle a rimbalzo. La chiave non può essere D’Angelo Russell (meglio come sesto uomo, perché è in grado di fare paniere in mille modi, ma entra ed esce spesso dal sistema di gioco), Austin Reeves (un po’ in confusione forse per il peso del contrattone appena siglato?), o Hachimura (buono, per carità, ma giocatore di ruolo e nulla più). Chi rimane? Non molto, al momento.

Di certo, questo primo scorcio di stagione è stato influenzato da parecchi infortuni e non si è ancora visto Jarred Vanderbilt, il miglior difensore perimetrale dei Lakers. Condite il tutto con una precisione al tiro da fuori che va e viene di gara in gara e con una non certo clamorosa capacità (o voglia) di fare taglia-fuori a rimbalzo, soprattutto difensivo, e vi spiegate come mai la squadra allenata da Darvin Ham porti a casa una vittoria clamorosa (in recupero) contro i Suns – o distrugga letteralmente Memphis – e poi perda in malo modo contro Sacramento subito dopo. In ogni caso, sono sul 50% di vittorie e c’è tutto il tempo per tornare su (ottavo posto a Ovest al momento).

Anthony Edwards direzione All-Star
Signore e Signori, questo qui è uno che a basket ci sa giocare per davvero. E se continua così, è chiaro, sarà un All-Star a breve, anzi a brevissimo. Swingman di 1.98 con la dinamite nei polpacci e fisico scolpito nella roccia. Prende la corsia centrale e inchioda a una mano in testa al vostro miglior 7-piedi di turno, con estrema nonchalance. Saltatore senza confini. Nell’azione successiva, poi, va in transizione e fa palleggio-arresto-e-tiro dalla posizione di ala, infilando da tre punti con un movimento di tiro piuttosto compatto e armonico (anche se la parabola è ancora un po’ tesa). Edwards è un realizzatore spaziale, con punti nelle mani e un trattamento della sfera brillante. Difende forte in uno contro uno e ha l’atteggiamento giusto per non cullarsi sugli allori. Purtroppo, i Minnesota T-Wolves non sono certo il mercato più sexy della lega, non competono neanche con le dimensioni di Los Angeles o New York. Ma la squadra sta seminando vittime di partita in partita (terza in classifica a Ovest, 9 vinte e 3 perse) con una difesa molto rassicurante, fatta di pressione sulla palla, blitz in angolo sui creator, protezione del ferro (Gobert) e buone rotazioni dal lato debole. In tutto ciò, la prima scelta assoluta del 2020 sta viaggiando a 26.3 punti di media con 1.5 palle rubate e il 37.1% da fuori. Bene, bravo, bis.

Zion, è ora di incidere!
“Mi sto mettendo un po’ nelle retrovie. Sto dando fiducia al processo. Sto facendo il massimo per accettare la situazione”. Questo (più o meno) ha dichiarato in settimana Zion Williamson dei Pelicans. Scusa? A parte le frasi criptiche – e la cattiva comunicazione – che lasciano intendere malcontento o voglia di essere ceduto o voglia di essere coccolato (ancora?) o fate voi. Ma, caro Zion Williamson, non è che stai andando a giocare al campetto, serve un quinto uomo, e tu decidi di fare la fatica di unirti a quei quattro ragazzini che hanno portato la palla da casa. Appena un anno fa, i Pelicans hanno dato fiducia a Zion con un’estensione contrattuale monstre da 193 milioni di dollari per 5 anni. Nel frattempo, l’ex Duke aveva giocato tipo 120 partite dal 2019 (anno in cui fu scelto come numero 1 assoluto al Draft) per infortuni e problemi fisici. Non ci si aspetta, quindi, una dichiarazione così poco da “leader” in un momento difficile per la franchigia. Frasi che lo fanno apparire come se fosse passato a New Orleans per caso.

Tra l’altro, si parla di un giocatore che non ha fatto vedere proprio tutti questi miglioramenti dal suo ingresso nella lega. Certo, se riceve palla sulle corsie laterali con un minimo di vantaggio sull’angolo difensivo di chicchessia, potete dire addio al canestro. È Shaquille O’Neal compresso nel corpo di Reggie Miller con la corsa di Grant Hill. Ha elevazione, tantissimi punti nelle mani quando viene imbeccato nei pressi dell’area e una velocità di piedi per portare divinamente a spasso i suoi quasi 130 kg. Ma senza un tiro da fuori che possa impensierire il suo marcatore diretto (che nove volte su dieci si stacca e gli lascia due metri di spazio) e un miglioramento serio nel trattamento della palla con la mano destra, il suo gioco rischia di essere troppo prevedibile, soprattutto in ottica playoff (quando si inizia a difendere per davvero). That’s all Folks! Alla prossima settimana.