In pubblico, dichiarazioni di sostegno totale alle operazioni militari israeliane. In privato, una presa di distanza che nelle ultime settimane si è fatta sempre più marcata. Si potrebbe definire così la strategia di Joe Biden e della sua amministrazione in tema di guerra a Gaza. La posizione è stata spiegata, proprio da Biden, durante la conferenza stampa seguita all’incontro con Xi Jinping, a margine del vertice APEC. Il presidente americano ha spiegato di appoggiare il raid israeliano sull’ospedale Al-Shifa di Gaza City, dove “Hamas ha ancora armi e tecnologia”. Ha detto, Biden, di non voler porre una scadenza agli attacchi israeliani su Gaza: “Finiranno quando Hamas non sarà più in grado di fare cose orribili agli israeliani”. Le due cose si allineano dunque perfettamente ai voleri del governo di Israele. Nella stessa conferenza stampa, Biden ha però aggiunto due cose che Benjamin Netanyahu e il suo governo non gradiscono: Gaza non va rioccupata e non c’è altra fine possibile al conflitto “se non la soluzione dei due Stati”. L’indicatore più importante del cambio di postura di Washington si è però registrato nella tarda serata italiana, col voto in Consiglio di Sicurezza dell’Onu su, tra le altre cose, pause umanitarie nella Striscia: gli Usa si sono astenuti, togliendo di fatto il cappello del veto che fino a oggi ha garantito mano libera a Israele.

Nel rapporto che si configura tra Stati Uniti e Israele durante queste settimane di conflitto a Gaza entrano molte cose: i rapporti storici tra i due Paesi, gli equilibri generali nella regione, gli interessi personali e i caratteri dei leader che gestiscono la crisi. Gli Stati Uniti, da subito, hanno dato via libera all’attacco israeliano su Gaza sostanzialmente per tre motivi. Israele è da decenni il principale alleato americano nella regione, destinatario di aiuti militari che si aggirano attorno ai 3,8 miliardi di dollari annuali, con una intelligence e un apparato militare legato a doppio filo a quello americano. Impossibile, dunque, negare l’appoggio allo Stato ebraico colpito da un attacco devastante come quello del 7 ottobre. C’è poi una ragione più contingente: Hamas, i suoi legami con l’Iran e lo stato di perenne turbolenza provocato dalla sua azione politica e militare rappresentano una minaccia per gli obiettivi che gli Stati Uniti vogliono raggiungere nell’area, in particolare il riavvicinamento storico tra Israele e Arabia Saudita. Tel Aviv sta dunque cercando di fare qualcosa che agli Stati Uniti risulta gradita: cancellare Hamas. C’è poi una terza ragione che spiega l’allineamento di Washington alle posizioni di Israele. I legami storici, affettivi, tra i due Paesi. Negli Stati Uniti esiste una comunità ebraica che, nei numeri, rivaleggia con quella di Israele. Un attacco efferato a Israele scatena sentimenti di angoscia profonda in milioni di ebrei americani. È un dato che la politica di Washington non può non interpretare.

E qui veniamo all’altro angolo visuale attraverso cui considerare i rapporti tra Israele e Stati Uniti. Quello delle personalità, degli interessi personali dei leader che gestiscono questa crisi. Iniziamo da Benjamin Netanyahu: è quello che in politica si chiama “un’anatra zoppa”. La sua credibilità presso l’opinione pubblica israeliana è danneggiata. Il primo ministro è considerato il principale responsabile del fallimento, militare e di intelligence, che ha portato al massacro di 1.400 civili. L’assoluta mancanza di scrupoli – con cui ha cercato di far ricadere sugli altri le sue responsabilità – ha dato un colpo ulteriore alla sua statura di leader. Netanyahu resta al potere perché un Paese non può cambiare la propria guida in tempo di guerra. Sarebbe una manifestazione disastrosa di divisione. E Netanyahu resta al potere opportunamente controllato e gestito dal suo “gabinetto di guerra”, in particolare dal ministro della difesa Yoav Gallant e da Benny Gantz, fatto entrare precipitosamente nel governo dopo il 7 ottobre e a sua volta, come tanti politici israeliani, generale in pensione.

Netanyahu è però leader cinico e spericolato. Tutta la sua ormai lunghissima carriera si basa sul piegare gli interessi generali a quelli della sua sopravvivenza politica. La riforma della giustizia, avviata per bloccare le inchieste giudiziarie a suo carico, è solo l’espressione più recente di questa consolidata attitudine. Oggi, con la guerra che infuria a Gaza, Netanyahu sa molto bene una cosa: la sua sopravvivenza dipende dal mantenere il Paese in uno stato di guerra il più a lungo possibile, arrivando a una soluzione che ristabilisca la sua immagine di leader forte. In altre parole, Netanyahu vuole la distruzione di Hamas, la rioccupazione di Gaza, la negazione di qualsiasi possibilità futura di Stato palestinese (che a un’opinione pubblica come quella israeliana, terrorizzata dagli attacchi di Hamas, appare oggi una minaccia). Da qui, la strategia seguita in queste settimane. Quella di andare avanti con la massiccia operazione militare su Gaza, incurante delle proteste internazionali, quella di pensare alla rioccupazione di Gaza. Insomma, la scommessa cinica di Netanyahu è che gli Stati Uniti, sulla base dei legami storici con Israele e dei propri interessi in Medio Oriente, continuino a dare semaforo verde alla strategia sua e della destra israeliana, garantendogli di restare politicamente a galla.

E qui entra in scena l’altro attore principale del dramma in corso: il presidente degli Stati Uniti. Joe Biden è in qualche modo l’incarnazione dei legami storici, strategici, militari, affettivi tra Stati Uniti e Israele. In quasi 40 anni di politica al Senato, Biden è stato tra gli alleati più solidi che Israele abbia mai avuto (tra i ricordi che menziona con più affetto c’è il suo incontro, giovane politico, con Golda Meir). Biden è il presidente più filo-Israele dai tempi di Bill Clinton. Abituato al passo felpato della politica del Senato Usa, Biden è anche sempre stato convinto assertore della necessità di restare pubblicamente al fianco di Israele, riservando al privato della diplomazia il compito di dirimere eventuali differenze. Si ottiene di più da Israele quando ci si dimostra alleati fedeli, è da sempre convinzione profonda di Biden. La scelta di sostenere senza esitazioni, almeno in pubblico, l’azione di Netanyahu dipende peraltro anche da altre considerazioni. I leader passano, i rapporti tra Paesi restano. Netanyahu, con ogni probabilità, è destinato a passare, alla fine del conflitto, e gli Stati Uniti avranno allora a che fare con un nuovo primo ministro. Senza dimenticare che Biden è anche in campagna elettorale e l’appoggio e i finanziamenti del mondo ebraico americano, tradizionalmente democratico, sono essenziali.

Questa è stata dunque la linea scelta dagli Stati Uniti per le prime settimane del conflitto. Appoggiare in pubblico Netanyahu. Scegliere canali privati per invitare alla moderazione a Gaza. Questa linea, oggi, non è più percorribile, per almeno due ragioni. La prima è l’enormità del disastro umanitario a Gaza, di fronte al quale non bastano più semplici inviti alla moderazione. La seconda è la progressiva divergenza di interessi tra Stati Uniti e Israele. Tutti i maggiori rappresentanti dell’amministrazione, da Biden a Antony Blinken, fino a Jake Sullivan, hanno spiegato molto chiaramente a Netanyahu che Gaza non va rioccupata. L’amministrazione, in colloqui privati col governo israeliano, ha anche escluso la possibilità di una “buffer zone”, una zona cuscinetto tra Gaza e Israele cui alcuni esponenti del governo Netanyahu sembrano pensare. “Nessun tentativo di mettere sotto assedio Gaza. Nessuna riduzione del territorio di Gaza”, ha detto Blinken durante la sua recente visita a Tokyo.

La frustrazione del governo americano è aumentata quando Netanyahu ha pubblicamente e polemicamente escluso che possa essere “una forza palestinese” a governare Gaza in futuro. Le parole del primo ministro arrivano ovviamente in risposta alla proposta americana di affidare il governo della Striscia all’Autorità Nazionale Palestinese. Ma a preoccupare Washington è anche il fatto che il governo israeliano continua a non offrire soluzioni realistiche per il futuro. Cosa succederà a Gaza, dopo la fine del conflitto? Cosa pensano di fare, a Tel Aviv, per risolvere decenni di conflitto con i palestinesi? L’assenza di risposte – o meglio, la tendenza di settori sempre più larghi della politica israeliana a negare la possibilità di uno Stato palestinese – ha portato negli ultimi giorni il governo americano a ritirar fuori con più forza la soluzione dei due Stati. Come ha detto Biden al termine del colloquio con Xi Jinping: “Non c’è altra soluzione se non i due Stati”. “C’è un divario che incombe tra Stati Uniti e Israele su quello che succederà nei prossimi mesi”, ha detto una fonte della Casa Bianca a NBC. In altre parole: lo stato di guerra permanente, che fa comodo a Netanyahu, non fa per nulla comodo al governo americano. Non fa soprattutto più comodo a Joe Biden che non può arrivare al voto presidenziale del 2024 con due guerre, Israele e Ucraina, in corso. Di qui, appunto, “il divario” tra Washington e Tel Aviv, destinato con ogni probabilità a divenire ancora più “incombente” nei prossimi mesi. Un primo, tangibile, segnale già c’è. L’astensione degli Stati Uniti al Consiglio di Sicurezza dell’Onu sulla mozione che chiede a Israele “pause e corridoi umanitari”. Il Consiglio di Sicurezza è il luogo dove, col suo veto, l’America ha sempre coperto la politica israeliana. Questo, oggi, non succede più.

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