Ogni giovedì, nella piazzetta qui sotto casa, si siedono sulle panchine degli immigrati – solitamente, da quel che intuisco, slavi, in buona parte rumeni. Sono lì perché hanno ritirato il pacco settimanale di generi di conforto dalle suore vincenziane. Di solito hanno un bicchiere di plastica in mano con un caffè caldo e si fermano a chiacchierare tra loro. Generalmente sono persone anziane, apparentemente anche male in arnese, più uomini che donne. Sono gli scarti del sistema.
Il primo, se non erro, ad associare il termine “rifiuto” all’uomo fu Zygmunt Bauman, nel suo Vite di scarto. Secondo l’illustre sociologo era rifiuto colui che non poteva più essere impiegato nel processo produttivo, ma anche chi consumava male perché troppo poco, ma anche il rifugiato, e comunque le vittime del sistema. Similmente Papa Francesco dall’inizio del suo pontificato parlava di “cultura dello scarto” nella nostra società, cultura che si adatta anche agli esseri umani. E poi nell’enciclica Laudato Sì: “La cultura dello scarto colpisce tanto gli esseri umani esclusi quanto le cose che si trasformano velocemente in spazzatura”.
Ma chi ha sistematizzato il concetto di rifiuto umano è stato Marco Armiero, nel suo L’era degli scarti, nel quale gli “scarti umani” sono coloro che sono vittime del sistema ma in un senso molto ampio, per cui sono tali anche coloro che vivono nella Terra dei Fuochi, o vicino ad una discarica, o gli immigrati e i rifugiati, oppure quelli che furono travolti dall’onda della diga del Vajont. Scarti non funzionali al sistema, ma talvolta anche sì, come quando raccolgono e riciclano i rifiuti, come accadeva nella discarica di Jardim Gramacho (ora chiusa e in via di ripopolamento da parte delle mangrovie). Scarti che – ironia della sorte – spesso sono addirittura colpevolizzati di essere tali, perché non sanno cogliere le opportunità che il sistema economico gli offre. Tipica la visione statunitense del povero come colui che non ce l’ha fatta.
Scarti di cui la narrazione corrente, i media di regime si astengono dal parlare, perché la Storia con la esse maiuscola è fatta dai vincenti; delle vittime delle vittorie è bene tacere. Ma, aggiungo io, la platea degli scarti deve estendersi anche a coloro che vivono vicino o lavorano dentro ad Agbogbloshie, in Ghana, la più grande discarica di rifiuti elettronici al mondo (che anche Armiero ricorda). E ai contadini, quelli suicidi in India, e a quelli segnati dal Roundup negli Usa. E altresì a coloro che in tutto il mondo permettono a noi occidentali di avere solo il bello del “progresso”: non solo i cellulari e i pc, ma anche le auto elettriche, i pannelli solari, l’ecologico insomma che ecologico alla fonte è tutt’altro, come ricorda Guillaume Pitron nel suo La guerra dei metalli rari. Chi parla qui da noi dei villaggi del cancro in Cina, come Dalahai?
Io le guardo, queste persone in piazzetta ogni giovedì. Mi verrebbe di parlare con loro, capire di più. Anche se non c’è niente da capire, tutto è in realtà molto chiaro. Anni fa ne intervistai uno sotto Natale: era un rumeno che tornava a casa, per continuare ad essere povero là, ma almeno con la sua famiglia. E allora mi astengo, mi limito a guardare, a sentirmi stringere il cuore, a sentire chiaramente che se quegli scarti esistono è anche colpa mia.