Ha vinto la motosega. Ed apparentemente non c’è stata partita. Javier Gerardo Milei, il “Trump de las Pampas”, il pittoresco e scarmigliato castigamatti della “casta”, ha battuto Sergio Massa, ministro dell’Economia ed ultima, melliflua versione di quella sorta di “eternità argentina” che si chiama peronismo, per un sonoro 56 a 44, molto al di là dei pronostici che – in un’ennesima debacle per la sempre meno esatta scienza del sondaggismo – avevano profetizzato una battaglia all’ultimo voto. Domenica sera, quando Sergio Massa s’è rivolto al paese riconoscendo la propria sconfitta, non erano trascorse che due ore dalla chiusura dei seggi. Ed era bastata una mezzoretta per capire in quale inequivocabile ed irreversibile direzione stessero andando le cose. Milei stava vincendo ovunque. Solo nella capitale, Buenos Aires, Massa stava in qualche modo resistendo – sia pur con un risicatissimo vantaggio – a fronte d’una inequivocabile ondata di ripudio. In tutta la, chiamiamola così, “Argentina profonda”, avanzava, visibilissima, una totale debacle. Particolarmente dura quella subita a Córdoba, in tempi non lontani bastione peronista, dove Milei ha infine vinto con il 75 per cento dei voti.
Ha vinto alla grande, Milei. Ha vinto – e forse non poteva esser altrimenti – la rabbia del ‘que se vayan todos”, in quella che, mutatis mutandis, sembra una mitigata replica del dramma che, nel dicembre del 2001, aveva visto la fuga in elicottero di Fernando de la Rua, presidente radicale eletto due anni prima, dai tetti di una Casa Rosada circondata da folle inferocite. Ha vinto – ed ha vinto democraticamente, come lo stesso Massa ha cavallerescamente sottolineato esaltando, nella sconfitta, “la solidità e la trasparenza della democrazia argentina a quarant’anni dalla sua rinascita dopo la notte dell’ultima dittatura militare” – il “rompitutto” giunto dal nulla. O, meglio, lo stravagante “giustiziere” a colpi d’insulti e sceneggiate risalito, come una sorta di mostro di Loch Ness, dalle abissali e tragicomiche profondità dei peggiori talk show televisivi. Ed ha vinto anche – paradossalmente, ma non più di tanto – lo scolaretto spaurito e pasticcione, spaesato, nervoso e palesemente impreparato che, appena una settimana fa, l’oggi perdente Sergio Massa aveva portato a spasso, come un cagnolino al guinzaglio, nell’ultimo dibattito televisivo prima del voto.
Gli analisti politici più accorti l’avevano pronosticato. La patetica esibizione televisiva del “leone” Milei, il suo farsi pecora di fronte a Massa, avrebbe potuto diventare – come di fatto è diventato nel ribollente clima di un’Argentina devastata da un’economia allo sbando e da un’inflazione che sfiora il 150 per cento – un punto a suo favore. O, se si preferisce, un’ulteriore testimonianza dell’arroganza di quella “casta” che è oggi l’emblema d’ogni male passato, presente e futuro. Sergio Massa non aveva soltanto vinto quel dibattito, l’aveva stravinto, umiliando l’avversario. Ed umiliandolo lo aveva beatificato, martirizzandolo. O, fuori da ogni religiosa metafora, l’aveva aiutato rafforzando la sua immagine di salvifico “outsider”, offrendo all’elettorato una ragione di più per punire, votando il suo rivale, la strafottenza di chi oggi comanda.
Ancor più probabile, tuttavia, è che quel dibattito non abbia, in realtà, cambiato nulla in un’Argentina che già aveva, sostanzialmente e da tempo, emesso il suo verdetto. Massa poteva, a quel punto, vincere, stravincere o perdere rovinosamente. Ma per l’argentino “de la calle” era e restava quello che era: il ministro dell’Economia d’un governo che, per ovvie e validissime ragioni, veniva ritenuto responsabile del quotidiano disastro vissuto di fronte alle casse dei supermercati, al momento del pieno di benzina nelle stazioni di servizio, o all’ora di pagare l’affitto a fine mese. O, peggio, all’ora di non pagarlo nella prospettiva d’un imminente sfratto per insolvenza.
La domanda ora è: quale dei due Javier Milei, entrerà, tra un mese, nella Casa Rosada? Quello della motosega o quello, annichilito e timido, che ha fatto da impotente sparring partner a Sergio Massa nell’ultimo dibattito televisivo? Il vero problema è che, nell’uno o nell’altro caso, difficile è immaginare, nell’immediato (e anche non tanto immediato) futuro dell’Argentina qualcosa che appaia, per il Paese e per il nuovo presidente, più allettante d’un disastro.
Dovesse Milei attuare – cosa improbabile considerato che il suo partito, La Libertad Avanza, è in netta minoranza nel Congresso – tutte le drastiche (e in alcuni casi decisamente demenziali) cose da lui promesse agitando la “motosierra”, provocherebbe una sorta di economica apocalisse, come ricordato giorni fa da un documento sottoscritto da un centinaio di eminenti economisti. E, cosa ancor più importante, come testimoniato dall’allarme con il quale il mercato – vero caposaldo del culto liberista che Milei professa con toni da ayatollah – ha fin qui reagito di fronte alla sua avanzata (piaccia o no Sergio Massa è, a dispetto del deplorevole stato dell’economia argentina, considerato un fattore d’equilibrio dalla finanza internazionale).
E non molto meglio andrebbero le cose, dovesse il “vero” Milei risultare, alla prova della “vera” politica, lo scolaretto impreparato e timido che una settimana fa ha fatto, sugli altari del dibattito in tv, la figura dell’agnellino sacrificale. Dopo la prima tornata elettorale dello scorso ottobre, sul carro che ha portato Milei alla vittoria sono saliti – con ruoli che si presumono determinanti – personaggi che l’uomo della motosega aveva in passato classificato come tra i peggiori rappresentanti della “casta”. Vale a dire: l’ex presidente Mauricio Macri (da Milei a suo tempo definito “un delinquente massimo corresponsabile del disastro economico”), l’ex ministro della Sicurezza e candidata alla presidenza Patricia Bullrich (che Milei ha a suo tempo definito, rammentando il di lei passato di montonera, “un’assassina che metteva bombe negli asili infantili”) e, con loro, tutto l’apparato di Juntos por el Cambio (per l’appunto, il partito di Macri e della destra tradizionale).
Un carico pesante. Tanto pesante che non pochi – tra i sunnominati analisti politici più accorti – sono coloro convinti che, alla fine, il “delinquente” e l’ “assassina” finiranno per fare col Milei presidente, quello che, durante dibattito in tv, Sergio Massa ha fatto col Milei candidato. Ovvero: che lo porteranno al guinzaglio – lui l’indomabile e capelluto leone, lui il furente ma impreparato “rompitutto” – lungo i crinali di “normali” politiche economiche destinate, come già accadde nei quattro anni della presidenza Macri, a tradire ogni attesa, specie quelle, sproporzionate e messianiche, sollevate dal Milei in versione motosierra. Il tutto in attesa d’una ennesima rivincita peronista tra quattro anni.
Ieri notte, nel suo discorso della vittoria, Javier Gerardo Milei s’è fermato, per così dire, nella terra di nessuno che separa le due rappresentazioni di sé stesso. Lo ha fatto pomposamente riproponendo la natura “storica” della sua vittoria – “oggi comincia la ricostruzione dell’Argentina…”, “…oggi finisce l’età della decadenza e comincia una nuova era…” – ed invocando, come ogni demagogo e populista di destra che si rispetti, un mitico passato di gloria. Quello d’una Argentina che fu “potenza mondiale” e che tale, sotto il suo comando, tornerà ad essere. Ma lo ha fatto anche – inevitabilmente ricordando lo scolaretto umiliato da Massa – leggendo con toni inusualmente contenuti l’intero discorso, solo alla fine concedendosi al suo tradizionale e esaltato “Viva la Libertà, carajo!”.
Si vedrà. Di certo c’è che la vittoria di Milei è, sul piano internazionale, un indiscutibile trionfo della peggior destra. Quella dei Bolsonaro in Brasile e dei Kast in Cile. Quella di Trump. Quella di Vox in Spagna. Quella che in Brasile, come in Cile, come in Spagna, come in Italia, emette, ad ogni gesto e ad ogni parola, un inequivocabile tanfo di rivincita. La “Libertad” alla quale – con tanto di “carajo!” – va inneggiando Milei non è infatti soltanto quella, liberista e da tempo squalificata, della “impresa privata”. È anche – soprattutto per molti versi – quella di chi nega che in Argentina vi sia mai stata una dittatura militare. Solo due giorni fa, la vicepresidente prescelta da Milei, Victtoria Villaruel, ha reclamato lo smantellamento del Museo della Memoria allestita all’Esma in quello che fu il maggior centro di tortura della dittatura. E solo qualche giorno prima aveva difeso la sghignazzante battuta con la quale uno dei militari del tempo aveva orgogliosamente ricordato, ammiccando, come nel portabagagli della Ford Falcón (l’auto preferita dagli sgherri della Junta) entrassero, sia pur un po’ ‘apretadas”, ammucchiate, ben sette persone. Sette di quegli esseri umani che la dittatura arrestava, torturava e poi faceva sparire gettandone, dagli aerei dei “voli della morte”, i corpi nelle acque del Rio de la Plata.
Vale la pena ripeterlo. Come andrà a finire non si sa. Ma di certo non finirà bene.
Massimo Cavallini
Giornalista
Mondo - 20 Novembre 2023
Argentina, vince la motosega. Con Milei trionfa la peggiore destra
Ha vinto la motosega. Ed apparentemente non c’è stata partita. Javier Gerardo Milei, il “Trump de las Pampas”, il pittoresco e scarmigliato castigamatti della “casta”, ha battuto Sergio Massa, ministro dell’Economia ed ultima, melliflua versione di quella sorta di “eternità argentina” che si chiama peronismo, per un sonoro 56 a 44, molto al di là dei pronostici che – in un’ennesima debacle per la sempre meno esatta scienza del sondaggismo – avevano profetizzato una battaglia all’ultimo voto. Domenica sera, quando Sergio Massa s’è rivolto al paese riconoscendo la propria sconfitta, non erano trascorse che due ore dalla chiusura dei seggi. Ed era bastata una mezzoretta per capire in quale inequivocabile ed irreversibile direzione stessero andando le cose. Milei stava vincendo ovunque. Solo nella capitale, Buenos Aires, Massa stava in qualche modo resistendo – sia pur con un risicatissimo vantaggio – a fronte d’una inequivocabile ondata di ripudio. In tutta la, chiamiamola così, “Argentina profonda”, avanzava, visibilissima, una totale debacle. Particolarmente dura quella subita a Córdoba, in tempi non lontani bastione peronista, dove Milei ha infine vinto con il 75 per cento dei voti.
Ha vinto alla grande, Milei. Ha vinto – e forse non poteva esser altrimenti – la rabbia del ‘que se vayan todos”, in quella che, mutatis mutandis, sembra una mitigata replica del dramma che, nel dicembre del 2001, aveva visto la fuga in elicottero di Fernando de la Rua, presidente radicale eletto due anni prima, dai tetti di una Casa Rosada circondata da folle inferocite. Ha vinto – ed ha vinto democraticamente, come lo stesso Massa ha cavallerescamente sottolineato esaltando, nella sconfitta, “la solidità e la trasparenza della democrazia argentina a quarant’anni dalla sua rinascita dopo la notte dell’ultima dittatura militare” – il “rompitutto” giunto dal nulla. O, meglio, lo stravagante “giustiziere” a colpi d’insulti e sceneggiate risalito, come una sorta di mostro di Loch Ness, dalle abissali e tragicomiche profondità dei peggiori talk show televisivi. Ed ha vinto anche – paradossalmente, ma non più di tanto – lo scolaretto spaurito e pasticcione, spaesato, nervoso e palesemente impreparato che, appena una settimana fa, l’oggi perdente Sergio Massa aveva portato a spasso, come un cagnolino al guinzaglio, nell’ultimo dibattito televisivo prima del voto.
Gli analisti politici più accorti l’avevano pronosticato. La patetica esibizione televisiva del “leone” Milei, il suo farsi pecora di fronte a Massa, avrebbe potuto diventare – come di fatto è diventato nel ribollente clima di un’Argentina devastata da un’economia allo sbando e da un’inflazione che sfiora il 150 per cento – un punto a suo favore. O, se si preferisce, un’ulteriore testimonianza dell’arroganza di quella “casta” che è oggi l’emblema d’ogni male passato, presente e futuro. Sergio Massa non aveva soltanto vinto quel dibattito, l’aveva stravinto, umiliando l’avversario. Ed umiliandolo lo aveva beatificato, martirizzandolo. O, fuori da ogni religiosa metafora, l’aveva aiutato rafforzando la sua immagine di salvifico “outsider”, offrendo all’elettorato una ragione di più per punire, votando il suo rivale, la strafottenza di chi oggi comanda.
Ancor più probabile, tuttavia, è che quel dibattito non abbia, in realtà, cambiato nulla in un’Argentina che già aveva, sostanzialmente e da tempo, emesso il suo verdetto. Massa poteva, a quel punto, vincere, stravincere o perdere rovinosamente. Ma per l’argentino “de la calle” era e restava quello che era: il ministro dell’Economia d’un governo che, per ovvie e validissime ragioni, veniva ritenuto responsabile del quotidiano disastro vissuto di fronte alle casse dei supermercati, al momento del pieno di benzina nelle stazioni di servizio, o all’ora di pagare l’affitto a fine mese. O, peggio, all’ora di non pagarlo nella prospettiva d’un imminente sfratto per insolvenza.
La domanda ora è: quale dei due Javier Milei, entrerà, tra un mese, nella Casa Rosada? Quello della motosega o quello, annichilito e timido, che ha fatto da impotente sparring partner a Sergio Massa nell’ultimo dibattito televisivo? Il vero problema è che, nell’uno o nell’altro caso, difficile è immaginare, nell’immediato (e anche non tanto immediato) futuro dell’Argentina qualcosa che appaia, per il Paese e per il nuovo presidente, più allettante d’un disastro.
Dovesse Milei attuare – cosa improbabile considerato che il suo partito, La Libertad Avanza, è in netta minoranza nel Congresso – tutte le drastiche (e in alcuni casi decisamente demenziali) cose da lui promesse agitando la “motosierra”, provocherebbe una sorta di economica apocalisse, come ricordato giorni fa da un documento sottoscritto da un centinaio di eminenti economisti. E, cosa ancor più importante, come testimoniato dall’allarme con il quale il mercato – vero caposaldo del culto liberista che Milei professa con toni da ayatollah – ha fin qui reagito di fronte alla sua avanzata (piaccia o no Sergio Massa è, a dispetto del deplorevole stato dell’economia argentina, considerato un fattore d’equilibrio dalla finanza internazionale).
E non molto meglio andrebbero le cose, dovesse il “vero” Milei risultare, alla prova della “vera” politica, lo scolaretto impreparato e timido che una settimana fa ha fatto, sugli altari del dibattito in tv, la figura dell’agnellino sacrificale. Dopo la prima tornata elettorale dello scorso ottobre, sul carro che ha portato Milei alla vittoria sono saliti – con ruoli che si presumono determinanti – personaggi che l’uomo della motosega aveva in passato classificato come tra i peggiori rappresentanti della “casta”. Vale a dire: l’ex presidente Mauricio Macri (da Milei a suo tempo definito “un delinquente massimo corresponsabile del disastro economico”), l’ex ministro della Sicurezza e candidata alla presidenza Patricia Bullrich (che Milei ha a suo tempo definito, rammentando il di lei passato di montonera, “un’assassina che metteva bombe negli asili infantili”) e, con loro, tutto l’apparato di Juntos por el Cambio (per l’appunto, il partito di Macri e della destra tradizionale).
Un carico pesante. Tanto pesante che non pochi – tra i sunnominati analisti politici più accorti – sono coloro convinti che, alla fine, il “delinquente” e l’ “assassina” finiranno per fare col Milei presidente, quello che, durante dibattito in tv, Sergio Massa ha fatto col Milei candidato. Ovvero: che lo porteranno al guinzaglio – lui l’indomabile e capelluto leone, lui il furente ma impreparato “rompitutto” – lungo i crinali di “normali” politiche economiche destinate, come già accadde nei quattro anni della presidenza Macri, a tradire ogni attesa, specie quelle, sproporzionate e messianiche, sollevate dal Milei in versione motosierra. Il tutto in attesa d’una ennesima rivincita peronista tra quattro anni.
Ieri notte, nel suo discorso della vittoria, Javier Gerardo Milei s’è fermato, per così dire, nella terra di nessuno che separa le due rappresentazioni di sé stesso. Lo ha fatto pomposamente riproponendo la natura “storica” della sua vittoria – “oggi comincia la ricostruzione dell’Argentina…”, “…oggi finisce l’età della decadenza e comincia una nuova era…” – ed invocando, come ogni demagogo e populista di destra che si rispetti, un mitico passato di gloria. Quello d’una Argentina che fu “potenza mondiale” e che tale, sotto il suo comando, tornerà ad essere. Ma lo ha fatto anche – inevitabilmente ricordando lo scolaretto umiliato da Massa – leggendo con toni inusualmente contenuti l’intero discorso, solo alla fine concedendosi al suo tradizionale e esaltato “Viva la Libertà, carajo!”.
Si vedrà. Di certo c’è che la vittoria di Milei è, sul piano internazionale, un indiscutibile trionfo della peggior destra. Quella dei Bolsonaro in Brasile e dei Kast in Cile. Quella di Trump. Quella di Vox in Spagna. Quella che in Brasile, come in Cile, come in Spagna, come in Italia, emette, ad ogni gesto e ad ogni parola, un inequivocabile tanfo di rivincita. La “Libertad” alla quale – con tanto di “carajo!” – va inneggiando Milei non è infatti soltanto quella, liberista e da tempo squalificata, della “impresa privata”. È anche – soprattutto per molti versi – quella di chi nega che in Argentina vi sia mai stata una dittatura militare. Solo due giorni fa, la vicepresidente prescelta da Milei, Victtoria Villaruel, ha reclamato lo smantellamento del Museo della Memoria allestita all’Esma in quello che fu il maggior centro di tortura della dittatura. E solo qualche giorno prima aveva difeso la sghignazzante battuta con la quale uno dei militari del tempo aveva orgogliosamente ricordato, ammiccando, come nel portabagagli della Ford Falcón (l’auto preferita dagli sgherri della Junta) entrassero, sia pur un po’ ‘apretadas”, ammucchiate, ben sette persone. Sette di quegli esseri umani che la dittatura arrestava, torturava e poi faceva sparire gettandone, dagli aerei dei “voli della morte”, i corpi nelle acque del Rio de la Plata.
Vale la pena ripeterlo. Come andrà a finire non si sa. Ma di certo non finirà bene.
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Roma, 12 mar. (Adnkronos) - Aspettare, ponderare. Giorgia Meloni non avrebbe ancora deciso se partecipare o meno alla video-call dei 'volenterosi', convocata per sabato dal Regno Unito. Il primo ministro britannico Keir Starmer ha chiamato di nuovo a raccolta i leader di quei Paesi pronti a fornire il loro supporto per assicurare la pace in Ucraina, dopo un possibile accordo di tregua con la Russia. Ma la partecipazione dell'Italia all'incontro da remoto, si apprende da fonti di governo, non è ancora confermata e la presidente del Consiglio starebbe riflettendo sul da farsi.
Il problema di fondo, viene spiegato, è essenzialmente uno: il governo italiano è fortemente contrario all'invio di truppe al fronte in Ucraina; dunque, se la riunione di Londra rientra nell'ambito di un invio di uomini, "noi non partecipiamo", il refrain che arriva da Palazzo Chigi. Diverso è invece il discorso per quanto riguarda la riunione dei Capi di Stato maggiore europei svoltasi martedì a Parigi con il presidente francese Emmanuel Macron: "In quel caso non eravamo parte del gruppo dei cosiddetti 'volenterosi', siamo andati lì come osservatori". Le diplomazie restano comunque in contatto.
Meloni è al lavoro sul discorso che dovrà pronunciare alle Camere la prossima settimana prima del Consiglio europeo del 20-21 marzo: un passaggio impegnativo, sul quale i partiti della maggioranza sono chiamati a compattarsi dopo aver votato in maniera difforme a Strasburgo. Gli europarlamentari di Fratelli d'Italia hanno dato il loro sì alla risoluzione sul Libro bianco sulla difesa, che sollecita i 27 Paesi dell'Ue ad agire con urgenza per garantire la sicurezza del Continente, accogliendo le conclusioni del Consiglio europeo sul riarmo.
Tuttavia, la delegazione di Fdi si è astenuta sulla risoluzione riguardante l'Ucraina dopo aver richiesto, senza successo, un rinvio del voto. Secondo Nicola Procaccini, co-presidente del gruppo Ecr, il testo non avrebbe tenuto conto dell'accordo raggiunto a Gedda tra Stati Uniti e Ucraina per un possibile cessate il fuoco, rischiando così di "scatenare l'odio verso Donald Trump e gli Usa, anziché aiutare l'Ucraina".
Il nostro "non è stato un doppio voto", dice all'Adnkronos un membro dell'esecutivo in quota Fratelli d'Italia: "La posizione è chiara: se approvi un testo troppo anti-Usa, come fai poi a farti mediatore con gli Usa?". Sulla stessa risoluzione per l'Ucraina, la Lega ha votato contro mentre Forza Italia si è espressa a favore.
Anche da Palazzo Chigi sottolineano come il testo della risoluzione sull'Ucraina fosse troppo sbilanciato 'contro' gli Stati Uniti: Fratelli d'Italia a Strasburgo - il ragionamento che trapela dai piani alti del governo - ha sempre votato a favore della libertà e della sicurezza dell'Ucraina, ma questa volta il testo della risoluzione "era molto più 'accusatorio' verso l'amministrazione Usa" rispetto ad altre volte. Fratelli d'Italia non avrebbe mai votato contro quella risoluzione: "Ma non potevamo nemmeno votare a favore tout court", spiegano.
Sull'astensione, come confermato poi da Procaccini, ha inciso la notizia arrivata dall'Arabia Saudita ieri sera sulla proposta di un cessate il fuoco di 30 giorni in Ucraina e la ripresa dell'assistenza americana a Kiev: "Non ci stiamo smarcando da nulla, quello di Fratelli d'Italia non era un voto contro l'Ucraina", il concetto che viene ribadito. Il voto a macchia di leopardo del centrodestra, ad ogni modo, non impensierisce Palazzo Chigi: in questo momento - si sottolinea - c'è un problema internazionale ben più ampio e la maggioranza di governo ha dimostrato che nei momenti importanti "è sempre uscita unita e compatta".
Almeno per ora, non sembrerebbe all'orizzonte un vertice con Meloni e gli altri leader della maggioranza, Antonio Tajani e Matteo Salvini (anche se i tre ogni settimana si incontrano per fare il punto della situazione su tutti i dossier). Sempre da palazzo Chigi viene evidenziata la "piena sintonia" tra Meloni e il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti, che rispondendo alla Camera all'interrogazione del Movimento 5 Stelle sul piano di riarmo approvato oggi dall'Unione europea ha ribadito che i finanziamenti per la difesa non andranno a discapito di sanità e servizi pubblici, rimarcando il suo no a spese per il riarmo che rialzino in modo oneroso il debito pubblico con rischi anche per la stabilità della zona euro. (di Antonio Atte)
Roma, 13 mar. (Adnkronos) - Il governo è "determinato" a contrastare l'evasione fiscale e allo stesso tempo alleggerire la pressione sui contribuenti onesti. Per il taglio delle tasse al ceto medio bisognerà aspettare gli esiti a fine marzo della verifica della commissione tecnica sullo stock dei debiti fiscali da 1.275 miliardi di euro. Il nuovo corso del governo per le verifiche ex ante, intanto, sta portando i primi frutti con un calo del 19% dei contenziosi nei primi due mesi dell'anno. Nel suo intervento alla cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario tributario 2025 alla Camera il viceministro al Mef Maurizio Leo si è soffermato su punti fermi e benefici attesi dalla riforma fiscale.
"Il tema dell'evasione fiscale è sotto gli occhi di tutti, abbiamo un tax gap che oscilla tra 80 e 100 miliardi e dobbiamo assolutamente contrastarlo, come pure la pressione fiscale su cui il governo si è mosso con determinazione, riducendo aliquote da 4 a 3 e rendendo strutturale questa misura cui si aggiunge il taglio del cuneo", ha sottolineato Leo. Accanto a questi due pilastri della lotta all'evasione e della riduzione della pressione fiscale, anche quello della semplificazione e della certezza del diritto, pilastro fondamentale quest'ultimo per "contrastare fenomeni illeciti, ma al tempo stesso attrarre capitali da estero", ha aggiunto.
Il tutto rafforzando 'l'arsenale' ex ante per indirizzare su un percorso di collaborazione i rapporti tra Stato e contribuente. In questa cornice il concordato preventivo biennale e della cooperative compliance stanno portando i primi frutti: nei primi due mesi del 2025 rispetto ai primi due mesi del 2024 c'è stata "una contrazione del contenzioso tributario" con un calo "del 19% dei nuovi giudizio incardinati", ha detto Leo, rilevando che "in alcune corti del Sud il calo si attesta addirittura al 50%".
Si attende per fine mese l'esito della requisitoria tecnica sullo stock dei crediti non riscossi dall'amministrazione fiscale. La Commissione tecnica, istituita presso il Mef sul riordino della riscossione e l'analisi del magazzino in carico all'Agenzia delle entrate-Riscossione "sta facendo la ricognizione e all'esito di questo faremo le opportune valutazioni, penso che entro fine mese avremo dei riscontri", ha detto Leo.
La verifica sui carichi renderà più chiaro il quadro su quanti possono essere abbandonati, quanti gestiti in modo differente e quanti possono, eventualmente, essere oggetto di una rottamazione. Considerando che la montagna dello stock ammonta a 1.275 miliardi e che circa tre quarti sono debito sotto i mille euro si aprirebbero ampie chances di recupero. Ma la prudenza è d'obbligo, visto che molte appartengono a soggetti defunti o falliti.
Dalle risorse eventualmente disponibili si capirà se possibile procedere al taglio Irpef per i redditi fino a 50-60mila euro. "Vediamo le risorse e come si può fare", ha risposto Leo interpellato sulla questione. Al momento il governo può contare sugli 1,6 miliardi del gettito del concordato preventivo biennale che si è chiuso a dicembre scorso a cui andrebbero aggiunti gli incassi del ravvedimento speciale che scade il 31 marzo prossimo.
Roma, 13 mar. (Adnkronos) - Il governo è "determinato" a contrastare l'evasione fiscale e allo stesso tempo alleggerire la pressione sui contribuenti onesti. Per il taglio delle tasse al ceto medio bisognerà aspettare gli esiti a fine marzo della verifica della commissione tecnica sullo stock dei debiti fiscali da 1.275 miliardi di euro. Il nuovo corso del governo per le verifiche ex ante, intanto, sta portando i primi frutti con un calo del 19% dei contenziosi nei primi due mesi dell'anno. Nel suo intervento alla cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario tributario 2025 alla Camera il viceministro al Mef Maurizio Leo si è soffermato su punti fermi e benefici attesi dalla riforma fiscale.
"Il tema dell'evasione fiscale è sotto gli occhi di tutti, abbiamo un tax gap che oscilla tra 80 e 100 miliardi e dobbiamo assolutamente contrastarlo, come pure la pressione fiscale su cui il governo si è mosso con determinazione, riducendo aliquote da 4 a 3 e rendendo strutturale questa misura cui si aggiunge il taglio del cuneo", ha sottolineato Leo. Accanto a questi due pilastri della lotta all'evasione e della riduzione della pressione fiscale, anche quello della semplificazione e della certezza del diritto, pilastro fondamentale quest'ultimo per "contrastare fenomeni illeciti, ma al tempo stesso attrarre capitali da estero", ha aggiunto.
Il tutto rafforzando 'l'arsenale' ex ante per indirizzare su un percorso di collaborazione i rapporti tra Stato e contribuente. In questa cornice il concordato preventivo biennale e della cooperative compliance stanno portando i primi frutti: nei primi due mesi del 2025 rispetto ai primi due mesi del 2024 c'è stata "una contrazione del contenzioso tributario" con un calo "del 19% dei nuovi giudizio incardinati", ha detto Leo, rilevando che "in alcune corti del Sud il calo si attesta addirittura al 50%".
Si attende per fine mese l'esito della requisitoria tecnica sullo stock dei crediti non riscossi dall'amministrazione fiscale. La Commissione tecnica, istituita presso il Mef sul riordino della riscossione e l'analisi del magazzino in carico all'Agenzia delle entrate-Riscossione "sta facendo la ricognizione e all'esito di questo faremo le opportune valutazioni, penso che entro fine mese avremo dei riscontri", ha detto Leo.
La verifica sui carichi renderà più chiaro il quadro su quanti possono essere abbandonati, quanti gestiti in modo differente e quanti possono, eventualmente, essere oggetto di una rottamazione. Considerando che la montagna dello stock ammonta a 1.275 miliardi e che circa tre quarti sono debito sotto i mille euro si aprirebbero ampie chances di recupero. Ma la prudenza è d'obbligo, visto che molte appartengono a soggetti defunti o falliti.
Dalle risorse eventualmente disponibili si capirà se possibile procedere al taglio Irpef per i redditi fino a 50-60mila euro. "Vediamo le risorse e come si può fare", ha risposto Leo interpellato sulla questione. Al momento il governo può contare sugli 1,6 miliardi del gettito del concordato preventivo biennale che si è chiuso a dicembre scorso a cui andrebbero aggiunti gli incassi del ravvedimento speciale che scade il 31 marzo prossimo.
Palermo, 13 mar. (Adnkronos) - All'alba di oggi i Carabinieri del Comando Provinciale di Messina e i Finanzieri dei Comandi Provinciali di Catania e Messina hanno effettuato una vasta operazione nelle Province di Messina e Catania, con l’esecuzione di misure cautelari emesse dai Gip dei Tribunali del capoluogo peloritano e di quello etneo, su richiesta delle rispettive Procure, nei confronti 39 persone, a vario titolo indagate, per associazione a delinquere di stampo mafioso, associazione finalizzata al narcotraffico, numerosi episodi di spaccio di stupefacenti, estorsione, rapina, accesso indebito a dispositivi idonei alla comunicazione da parte di soggetti detenuti - tutti reati aggravati ai sensi dell’art. 416-bis.1 del codice penale "poiché commessi con metodo mafioso o con il fine di agevolare il clan Cappello-Cintorino' e trasferimento fraudolento di valori.
Le due ordinanze sono il risultato dello stretto coordinamento investigativo attuato tra gli Uffici Giudiziari di Catania e di Messina, sotto la supervisione della Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, al fine di monitorare più efficacemente le persistenti attività, anche di sfruttamento economico del territorio, proprie dei citati clan per effetto delle cointeressenze nei territori “di confine” delle due province.
I particolari dell’operazione saranno forniti nel corso di una conferenza stampa che sarà tenuta alle ore 10:30, presso il Palazzo di Giustizia di Messina (via Tommaso Cannizzaro).
Palermo, 12 mar. (Adnkronos) - "Affronterò il processo con la massima serenità e con la consapevolezza di poter dimostrare la correttezza del mio operato, avendo sempre agito nel pieno rispetto del regolamento previsto dall’Assemblea Regionale Siciliana. Non ho mai, nella mia vita, sottratto un solo centesimo in modo indebito e confido che nel corso del giudizio emergerà la verità, restituendo chiarezza e trasparenza alla mia posizione. Resto fiducioso nella giustizia e determinato a far valere le mie ragioni con il rispetto e la serietà che ho sempre riservato alle istituzioni". Così Gianfranco Miccichè, rinviato a giudizio per l'uso dell'auto blu, commenta il processo che partirà a luglio. "Sono però amareggiato da quanto la stampa riporta sul fatto che, secondo il pm avrei arraffato quanto più possibile- dice - Nella mia vita non ho mai arraffato alcun che e su questo pretendo rispetto da parte di tutti".
Palermo, 12 mar. (Adnkronos) - L'ex Presidente dell'Assemblea regionale siciliana Gianfranco Miccichè è stato rinviato a giudizio con l'accuaa di peculato e concorso in truffa aggravata il. La prima udienza del processo si terrà il 7 luglio davanti alla terza sezione del tribunale di Palermo. Secondo l'accusa il politico, ex viceministro dell'Economia, avrebbe usato l'auto blu in dotazione, in quanto ex Presidente dell'Ars, per fini personali. In particolare avrebbe usato, non per fini istituzionali, l’Audi della Regione, per una trentina di volte, tra marzo e novembre del 2023, anche per fare visite mediche, e persino per andare dal veterinario con il gatto. Avrebbe fatto salire sull'auto anche componenti della sua segreteria e familiari.
Il suo ex autista, Maurizio Messina, che ha scelto il rito abbreviato, è stato invece condannato dal giudice per l’udienza preliminare Marco Gaeta a un anno e mezzo di carcere per truffa, più sei mesi con l'accusa di avere sottratto la somma che gli era stata sequestrata durante le indagini.
Milano, 12 mar. (Adnkronos) - La Corte di Assise di Appello di Milano ha assolto, ribaltando la sentenza a sette anni inflitta in primo grado, Salvatore Pace per il concorso nell'omicidio di Umberto Mormile, l'educatore del carcere di Opera ammazzato l'11 aprile 1990. Il delitto fu rivendicato dalla Falange Armata, organizzazione terroristica sulla quale gravitavano mafiosi, 'ndranghetista e componenti dei servizi segreti deviati. Mormile, 34 anni, venne assassinato a Carpiano, nel Milanese, mentre andava al lavoro, quando due individui in sella a una moto esplosero contro di lui sei colpi di pistola. Secondo l'accusa, Pace, 69 anni, diventato collaboratore di giustizia, si sarebbe messo a disposizione dei mandanti dell'omicidio. "Attendo di leggere le motivazioni" è il commento dell'avvocato Fabio Rapici, legale di alcuni dei familiari della vittima.