A 43 giorni dalla strage indisturbata di Hamas e dalla cattura dei 242 ostaggi di cui 219 in mano dei miliziani di Hamas, mentre i restanti sarebbero in balìa di altre fazioni non meglio identificate, la situazione nella striscia di Gaza ha superato nella scala dell’orrore qualsiasi previsione catastrofica della prima ora. Ma ciò che è più allarmante e difficile da comprendere è la ripetizione ossessiva da parte del governo israeliano “allargato”, tutt’ora sciaguratamente appiattito sulla pretesa di rivalsa personale di Netanyahu, di “sradicare” Hamas, operazione di mesi secondo le previsioni attendibili dei generali.
E non è solo il tempo a rendere velleitaria la determinazione ad andare avanti incuranti dell’evidenza che annientare militarmente Hamas significa semplicemente polverizzare tutta la striscia di Gaza.
A voler contrastare un piano esclusivamente tattico, privo di un approdo politico e risolutivo qual è quello di Netanyahu non sono solo la comunità internazionale che si è espressa nell’ambito delle Nazioni Unite; l’Europa con l’accorato monito di Josep Borrell “un orrore non ne giustifica un altro”; l’alleato americano che dopo aver messo in guardia da subito Israele perché non ripeta gli errori dell’Occidente con l’Isis, ora senza giri di parole ha definito impossibile pensare di annientare completamente Hamas.
Sono gli israeliani a decretare la totale inaffidabilità di un comandante in capo aggrappato al potere straordinario che gli ha regalato l’agguato formidabile di Hamas e a rendersi tragicamente conto di quanto la sua smisurata ambizione e la sua necessità di garantirsi l’agognata impunità confliggano con l’esigenza di pace futura e di sicurezza per il paese.
Secondo i più recenti sondaggi, Netanyhau viene considerato “credibile” dal 4% degli elettori e dal 6% di quelli all’interno del suo fronte politico. E le numerose manifestazioni dei parenti degli ostaggi, anche sotto la sua abitazione, confermano la consapevolezza diffusa espressa molto chiaramente sulle pagine del quotidiano Haaretz che lo slogan perentorio “andremo avanti fino alla fine” per eliminare tutti gli organizzatori e gli autori dei massacri del 7 ottobre sia ben poco rassicurante. Infatti oltre a non essere significativo in termini politici con il passare dei giorni stride tragicamente con la solenne e reiterata promessa fatta ai famigliari di riportare a casa gli oltre 240 ostaggi, tanto più dopo la chiusura totale dei negoziati con Hamas.
Il fattore tempo sta inesorabilmente confermando la diagnosi tranchant che aveva fatto già a fine ottobre il politologo francese, specialista dell’Islam e del mondo arabo, Gilles Kepel: “Se Israele vuole uscire da questa crisi deve sbarazzarsi del premier Benjamin Netanyahu. Oggi molti israeliani si chiedono se sia il caso di eliminarlo prima di condurre l’offensiva militare, perché non ha più legittimità politica” (La Stampa, 31/10/23). Ma nonostante il crescendo della sfiducia interna oltre che del discredito internazionale presiede tuttora il gabinetto di guerra e si trova costretto ad ammettere per la prima volta che le “operazioni mirate” a Gaza, con oltre 11mila vittime accertate “non sono state in grado di salvaguardare la sicurezza dei civili”.
Piuttosto che una reazione mirata e proporzionata il modus operandi su Gaza da parte di Israele richiama le rovine fumanti e gli ospedali polverizzati dai cacciabombardieri russi ad Aleppo nel dicembre del 2016 . E per capire meglio come l’ospedale di Al-Shifa sia a tutti gli effetti “zona di guerra” basta ricordare la nuda agghiacciante verità che trapelava allora dai vertici militari di Bashar al-Assad: con gli ospedali distrutti gli insorti subivano perdite quattro volte superiori perché senza assistenza i feriti gravi, in media tre per ogni deceduto, diventavano a loro volta cadaveri. Per cui al di là del probabile uso degli ospedali come rifugio da parte dei miliziani di Hamas non è particolarmente rilevante per Tel Aviv provare il loro stazionamento nei sotterranei.
Intanto l’intensificazione della pressione militare su Gaza potrebbe significare la volontà di Israele di chiudere in tempi più stretti quel fronte in vista dell’apertura di un altro ancora più rovinoso, se possibile, in Cisgiordania. Nei territori dal 7 ottobre la corsa alle armi da parte dei residenti israeliani abusivi è incentivata dal ministero della sicurezza nazionale e la tensione tra i coloni ultra-ortodossi e i palestinesi, oggetto di vere e proprie cacce all’uomo, è ai livelli massimi.
Quella che sta prevalendo a Gaza come in Cisgiordania è “la filosofia del martirio“. Come spiega allarmato Sari Nusselbeh, docente di filosofia, esponente dell’Autorità palestinese, intellettuale di prestigio internazionale “Non sento proteste, ma appelli alla guerra santa. Le nuove generazioni di Gaza non erano mai andate oltre la rete. Ora considerano i guerriglieri di Hamas degli eroi che hanno aperto la loro prigione. Vedo molte analogie tra l’ideologia del martirio di Hamas e quella dei coloni ebrei”. (intervista del 16/11 Corriere). Il radicalismo religioso cresciuto a dismisura nell’era Netanyahu si conferma una delle cause scatenanti dello scenario spaventoso che abbiamo di fronte e che potrebbe ulteriormente deflagrare.