L’intero componimento, dedicato dalla poetessa a tutte le vittime di femminicidio in America Latina, sta rimbalzando sui social da quando è arrivata la notizia del ritrovamento del corpo di Giulia Cecchettin
“Se domani tocca a me voglio essere l’ultima”. La frase che chiude la poesia di Cristina Torres Cáceres, attivista peruviana, è un grido che spacca il cuore. Ma è anche la speranza di un cambiamento che potrà avvenire. L’intero componimento, dedicato dalla poetessa a tutte le vittime di femminicidio in America Latina, sta rimbalzando sui social da quando è arrivata la notizia del ritrovamento del corpo di Giulia Cecchettin, La vittima numero 105 in Italia dall’inizio dell’anno: 22 anni e l’orgoglio di una laurea alle porte.
Lo ha condiviso la sorella maggiore di Giulia, Elena Cecchettin, che in questo momento di dolore sta trovando la forza di combattere perché l’omicidio di Giulia sia, a pochi giorni dalla Giornata mondiale contro la violenza sulle donne il 25 novembre, il simbolo di una cultura da annientare. Quella della prevaricazione maschile. E bisogna farlo subito, urgentemente.
Raggiunta dalla giornalista del programma Mediaset “Dritto e Rovescio”, Elena invita tutti, donne e uomini, ad agire, a non stare in silenzio: “Ditelo a quell’amico che controlla la propria ragazza, ditelo a quel collega che fa cat-calling alle passanti, rendetevi ostili a comportamenti del genere accettati dalla società, che non sono altro che il preludio del femminicidio”. Poi fa appello allo Stato. Spiega: “Il femminicidio è un delitto passionale, è un delitto di potere. Serve un’educazione sessuale e affettiva capillare, serve insegnare che l’amore non è possesso”.
Soprattutto Elena chiede di uscire dai luoghi comuni che subito identificano come “malato” chi commette questo reato: “Il colpevole non è un mostro, è un figlio sano della società patriarcale che è pregna della cultura dello stupro”, dichiara riferendosi a Filippo Turretta, l’assassino della sorella. Nel suo componimento Cristina Torres Cáceres affronta anche questo cliché: la non accettazione che si tratti di cultura di prevaricazione fa sì che il colpevole sia sempre ritenuto in qualche modo un’eccezione malata.
Ecco il testo completo:
“Se domani non rispondo alle tue chiamate, mamma. Se non ti dico che vengo a cena. Se domani, non vedi arrivare il taxi. Forse sono avvolta nelle lenzuola di un hotel, su una strada o in una borsa nera. Forse sono in una valigia o mi sono persa sulla spiaggia. Non aver paura, mamma, se vedi che sono stata pugnalata. Non gridare quando vedi che mi hanno trascinata. Mamma, non piangere se scopri che mi hanno impalata. Ti diranno che sono stata io, che non ho urlato, che erano i miei vestiti, l’alcool nel sangue. Ti diranno che era giusto, che ero da sola. Che il mio ex psicopatico avesse delle ragioni, che ero infedele, che ero una puttana. Ti diranno che ho vissuto, mamma, che ho osato volare molto in alto in un mondo senza aria. Lo giuro, mamma, sono morta combattendo. Lo giuro, mia cara mamma, ho urlato forte così come volavo alto. Lui si ricorderà di me, mamma, saprà che sono stata io a rovinarlo quando avrà di fronte il volto di tutte quelle che urleranno il mio nome. Perché lo so, mamma, non ti fermerai. Però, te lo chiedo per quello che ami di più al mondo, non trattenere mia sorella. Non rinchiudere le mie cugine, non privare di nulla le tue nipoti. Non è colpa tua, mamma, non è stata nemmeno mia. Sono loro, saranno sempre loro. Combatti per le loro ali, quelle ali che mi sono state strappate. Combatti per loro, che possano essere libere di volare più in alto di me. Combatti perché urlino più forte di me. Possano vivere senza paura, mamma, proprio come ho vissuto io. Mamma, non piangere le mie ceneri. Se domani sono io, mamma, se non torno domani, distruggi tutto. Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima”.