Cultura

Close Reading, quando il piacere della lettura si esalta nell’analisi del testo. In anteprima uno stralcio del saggio di David Greenham in uscita per Einaudi

Shakespeare, Tolkien, Fitzgerald, Saba e Leopardi sotto la lente d’ingrandimento del metodo Greenham. “Leggere non equivale tanto a seguire passivamente le righe di un testo con lo sguardo; in realtà, è un atto creativo” - L'ESTRATTO IN ANTEPRIMA ESCLUSIVA

di Davide Turrini

Il piacere che deriva dal leggere può aumentare attraverso l’analisi del testo. Questo è ciò che sostiene e sistematizza definitivamente in metodo, David Greenham, autore del saggio Close Reading – Il piacere della lettura, in libreria per Einaudi e di cui FQMagazine vi offre in anteprima un piccolo e significativo assaggio. Una rapida degustazione che sfiora uno dei più discussi testi di letteratura fantasy (capostipite? apice? epigono?) come Lo Hobbit di Tolkien. Uno dei tanti esempi che Greenham, professore di letteratura inglese dell’Università dell’Inghilterra occidentale, offre come spunto di riflessione rispetto ad una tesi stimolante e coraggiosa, passionale e rivoluzionaria: ovvero l’idea che leggere attentamente significa fare un passo indietro rispetto alla narrazione più ampia ed esaminare le parti costitutive di un testo.

Non che l’approccio di Greenham sia nato la scorsa notte. Smontare e rimontare un testo, sia esso un racconto, una poesia, un testo teatrale, è opera certosina che la critica letteraria (la corrente del New Criticism nel mondo anglosassone) ha effettuato per decenni e con risultati stimolanti, ma senza mai arrivare a teorizzare un metodo vero e proprio. Ecco allora che il saggio di Greenham va a colmare un vuoto con quello che l’autore definisce un manuale basato su sei contesti del close reading, ognuno dei quali servirà da strumento per analizzare il linguaggio letterario: il contesto semantico (qual è il significato delle singole parole); il contesto sintattico (che cosa designano le parole quando vengono disposte insieme); il contesto tematico (come emergono i temi e condizionano il senso di ciò che leggiamo); il contesto iterativo (in quali maniere le ripetizioni e gli schemi influiscono sui significati del testo); il contesto generico (come il genere letterario modifica il nostro approccio al senso dell’opera); il contesto avversativo (in che modo le questioni storiche, politiche e teoriche ridanno forma ai significati). I primi due contesti, semantico e sintattico, servono a Greenham per l’analisi degli incipit de Lo Hobbit di Tolkien e del Romeo e Giulietta di Shakespeare.

Il piacere della lettura ri-nasce così come una vertigine intellettuale rigorosamente analitica pari al godimento che deriva dalla narrazione tout-court. Un po’ come l’utilizzo di una banale scatola degli attrezzi di fronte a qualcosa da rimodellare e riaggiustare, un po’ come mettere in pausa un frammento di un’opera di Stanley Kubrick o Wes Anderson e far trasparire in controluce la complessità di ogni singola inquadratura, il close reading è un avvicinamento intrusivo, una perlustrazione omogenea, un piacevole perdersi, nel testo (e qui si spazia dal Gatsby di Fitzgerald alle poesie di Saba e Leopardi). “Vediamo che comincia a emergere una delle tensioni fondamentali di questo libro: quella tra il godimento immediato e una lettura più lenta, che ci permette di analizzare la fonte del piacere concentrandoci su alcuni vocaboli e citazioni; e cioè, usando il close reading”, scrive Greenham.

Un metodo, quello descritto in Close Reading che non prevede vergogna nel piacere dell’ “identificazione” del lettore con i personaggi della storia narrata; che esalta l’importanza perfino di suoni impossibili (“nel close reading abbiamo spesso bisogno d’immaginare un suono che in realtà non sentiamo”); ricordando sempre il cosiddetto piacere aggiuntivo: rileggere. “Dopo un’unica lettura, ci facciamo un’idea molto semplice di una narrazione. Per questo di solito abbiamo bisogno di tornare sulla storia, magari a più riprese, per coglierla nel complesso. Se vogliamo che la comprensione e il piacere aumentino vertiginosamente, dobbiamo passare dalla parte al tutto e viceversa con una sorta di movimento ascensionale. Godersi un libro significa trarne piacere ma anche possederlo”.

Greenham, del resto, è stato chiaro fin da subito: utilizzare il metodo del close reading unisce l’utile al dilettevole. “Quando leggiamo non avviene quello che intuitivamente penseremmo. Abbiamo capito che il significato non sta nei singoli vocaboli e, perciò, non lo si costruisce semplicemente sommando i vari termini in campo. A determinarlo, piuttosto, sono le relazioni tra le parole: la maniera in cui interagiscono. Leggere vuol dire cogliere tali relazioni – chiosa l’autore – Leggere, in effetti, non equivale tanto a seguire passivamente le righe di un testo con lo sguardo; in realtà, è un atto creativo. I significati, al di là della pagina, prendono forma nella nostra mente. Ecco il motivo per cui amiamo quest’attività: perché siamo direttamente coinvolti nella costruzione di un’opera”. Insomma, quando leggiamo prendiamoci un tantino più sul serio. Piacere e conoscenza analitica non sono mai andate così armonicamente a braccetto come con il close reading.

L’ESTRATTO IN ANTEPRIMA ESCLUSIVA

Capitolo 1
I sette piaceri della lettura

1. Gli inizi.

Un libro famoso comincia così (Lo Hobbit, p. 13):

In una caverna sottoterra viveva uno hobbit. Non era una caverna brutta, sporca, umida, piena di resti di vermi e di trasudo fetido, e neanche una caverna arida, spoglia, sabbiosa, con dentro niente per sedersi o da mangiare: era una caverna hobbit, cioè comodissima.

Perché queste parole si sono dimostrate talmente piacevoli da indurre tante persone, anche i bambini, ad avventurarsi in quella caverna sconosciuta? Be’, in primo luogo, quasi ogni termine ha un significato immediato: crea associazioni e figure facili da afferrare, insieme con un ambiente sicuro. Inoltre, si richiama ai sensi: vista, tatto, olfatto. La costruzione delle frasi è ben bilanciata, più o meno ritmica («In una caverna / sottoterra»), mentre le negazioni reiterate con dolcezza («non», «neanche», «niente») suggeriscono che le nostre immagini mentali e le nostre impressioni, con la loro ovvietà e familiarità, non sono pertinenti. Si crea così uno splendido spazio bianco, che dev’essere colmato. A rendere il brano particolarmente vivo ci pensa il fascino della stranezza, racchiuso in quell’unica parola ripetuta, che attira la nostra attenzione senza cedere, a differenza del resto, alla comprensione immediata: «Hobbit». Il termine ricorda «coniglio» in inglese (rabbit), un animale che vive sottoterra, ma in luoghi esclusi dal narratore: umidi e pieni di resti di vermi, oppure aridi e spogli. Chiaramente, una caverna hobbit non è una caverna normale. Uno hobbit, quindi, è qualcosa d’inedito per noi lettori; e ci viene voglia di spingerci oltre per capire che cosa sia di preciso. C’è un altro dettaglio fondamentale: sappiamo che arriveremo in un posto «comodissimo». Nel giro di due frasi veniamo allontanati dal luogo in cui ci siamo, per essere trasportati in uno spazio sicuro, dove possiamo sederci e mangiare. Giunti alla fine del secondo periodo, ci siamo dimenticati che stiamo leggendo: siamo ormai partiti alla scoperta di un nuovo ambiente, che, pur con le sue stramberie, si preannuncia tranquillo e allettante.
Il libro, continuando sulla stessa linea, sviluppa un’immagine di questo microcosmo (p. 13):

Aveva una porta perfettamente rotonda come un oblò, dipinta di verde, con un lucido pomello d’ottone proprio nel mezzo. La porta si apriva su un ingresso a forma di tubo, come un tunnel: un tunnel molto confortevole, senza fumo, con pareti foderate di legno e pavimento di piastrelle ricoperto di tappeti, fornito di sedie lucidate, e di un gran numero di attaccapanni per cappelli e cappotti: lo hobbit amava molto ricevere visite.

Siamo in piedi davanti alla porta, quando di colpo veniamo trascinati dentro, dove quasi ci viene chiesto di toglierci il cappello e il cappotto. Diamo un’occhiata al «pavimento di piastrelle ricoperto di tappeti» e ammiriamo le «pareti foderate di legno». Ma c’è ancora qualcosa che non torna. La porta è «rotonda», l’ingresso sembra un «tubo». Non si tratta, quindi, di uno spazio «umano»: noi, quantomeno nel mondo moderno di lingua inglese, tendiamo a usare forme rettangolari per le nostre abitazioni. Non è neppure l’opera di un animale, dato che la porta è «perfettamente» rotonda e ha un pomello «proprio nel mezzo», senza scordare che le sedie sono «lucidate». Nonostante tutto, è un ambiente parecchio civilizzato. In poche righe emergono aspetti familiari ma anche inconsueti, che creano il brivido necessario per provare un certo tipo di piacere. Ci troviamo dolcemente disorientati: perdiamo l’equilibrio quel tanto che basta per scivolare nel flusso narrativo.

© 2019 David Greenham. All rights reserved
© 2023 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
Authorised translation from the English language edition published by
Routledge, a member of the Taylor & Francis Group

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