Da giorni, come ogni anno verso il 25 novembre, partecipo a dibattiti, convegni, tavole rotonde in cui si parla di violenza di genere. Quest’anno è tutto ancora più difficile del solito perché da poco Giulia Cecchettin è stata uccisa da Filippo Turetta. L’ennesimo femminicidio (sono oltre 100 dall’inizio del 2023), che a quanto pare fa più discutere di altri, per motivi vari: perché entrambi giovanissimi e normalissimi, perché per qualche giorno si è sperato in un esito positivo, perché la sorella di Giulia ha parlato in modo così netto, perché… Perché.
Troppe parole, al punto che stavolta avevo la tentazione di non dire nulla. Nausea e disgusto erano troppo forti. Ma anche tacere è un modo di comunicare, e poiché il silenzio poteva passare per incuria, ho deciso di scrivere. C’è una questione che emerge sempre, da anni, quando si parla di violenza di genere. La legittimità di usare espressioni come “AMORE”, “INNAMORAMENTO”, “PASSIONE”, “INNAMORATO” (lui, il femminicida). La legittimità di dipingere quadretti romantici per descrivere relazioni che finiscono in violenza e morte.
“Si dice amore, però no, chiamarlo amore non si può”, cantava Bennato nel 1977 (“La fata”). È la posizione di chi si scaglia contro il fatto di associare il concetto di amore a quelli di violenza e femminicidio. Sbagliatissimo chiamarlo “amore”, dicono in tanti/e: l’amore è tutt’altro, l’amore non è possesso ma libertà, l’amore non violenta, non stupra, non uccide. È la polemica che ad esempio si accese nel 2007 sul titolo della trasmissione “Amore criminale” che da allora va in onda su Rai 3 e racconta storie di femminicidio.
Dall’altro lato, c’è chi invece sostiene la legittimità di parlare di amore in questi casi. Non per giustificare il femminicidio, ovviamente, ma per mettere il dito nella piaga del fatto che, sì, dobbiamo riconoscerlo, ammetterlo, divulgarlo: nella nostra società sessista e violenta il femminicidio nasce nel cuore di relazioni che all’inizio, e spesso per molto tempo, entrambi i partner, donna inclusa, descrivono a sé stesse/i e ad amiche, amici, parenti con parole come “amore” e simili. Un amore a cui viene ricondotto ogni tipo di eccesso che amore non dovrebbe mai essere chiamato: dalla gelosia alle costrizioni, dalla violenza psicologica a quella fisica. Perché è solo quando arriva la violenza fisica e visibile, o addirittura la tragedia, che all’improvviso si smette di chiamarlo amore. E solo a quel punto che l’assassino diventa “mostro”, “malato”, “disturbato”, “anormale”.
E io, da che parte sto? Per anni son stata per il no: non si può chiamarlo amore, dicevo, perché bisogna dissociare l’amore dal femminicidio, bisogna spiegare alle persone che l’amore non è mai – mai! – criminale. L’amore è altro. Da qualche anno ci sto ripensando. Se continui a dissociare il concetto di amore dalle situazioni di violenza e femminicidio, come fai a capire che sono le stesse donne uccise ad averlo fatto? Come fai a insegnare alle ragazzine e ai ragazzini a guardarsi dai rischi, dai pericoli, dalle trappole mortali nascoste in secoli di storie d’amore che nella nostra società includono possesso, pretese, gelosia, tormenti di ogni tipo, inflitti dal maschio alla compagna? Dalla letteratura all’opera lirica, dalla storia del cinema a quella della musica, da decenni di canzoni pop e rock, fino all’ultimo rap e trap, tutto nel nostro mondo è intriso di un amore che contiene possesso, gelosia, dolore, divieti, paura del tradimento, terrore di essere abbandonati, ossessioni e violenze varie. Tormenti quasi sempre inflitti da un uomo a una donna. A volte, pur con frequenza statistica irrilevante, anche da una donna a un uomo, o da un/a partner omosessuale a un’altra/o.
Conclusione? Se associ l’amore al femminicidio, rischi di giustificarlo. Se non lo fai, rischi di allontanare il femminicidio dalla quotidianità e normalità delle relazioni quotidiane, dentro cui invece nasce. Le parole sono polisemiche, vaghe, ambigue, vischiose. Sempre. Perciò vanno usate con attenzione estrema e continua al tono, ai modi, allo stile. Alle differenze di contesto. Sempre. Bisogna soppesare le parole, prima di usarle, perché altrimenti fanno danni. Sempre. A maggior ragione quando si parla di atrocità. Come fanno i mezzi di comunicazione di massa in questi giorni. Che puntualmente producono danni.