A ottobre la Cassazione, dando ragione a un vigilante, ha stabilito che i contratti collettivi non bastano a garantire una retribuzione degna. Nei giorni scorsi, però, l’assenza di un salario minimo fissato per legge è stata usata dal pm e dal gip di Torino come argomento per archiviare un’indagine per sfruttamento del lavoro a carico di un imprenditore bengalese titolare di alcuni minimarket, che faceva lavorare i dipendenti fino a 12 ore al giorno, sette giorni su sette, per appena cinquecento euro di stipendio. La questione ruotava attorno al primo degli indicatori che il codice penale, all’articolo 603-bis, elenca come esempi di “sfruttamento”: “La reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi (…) o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato”. Nella sua memoria difensiva, l’avvocato dell’imputato Raffaele Folino non ha messo in discussione la sussistenza di queste condizioni nel caso di specie. Ma ha richiamato la giurisprudenza secondo cui, per dimostrare il reato, serve anche avere la prova che il lavoratore versasse in uno stato di bisogno tale da indurlo ad accettare lo sfruttamento. Stato di bisogno che nel caso di specie non sussisteva. Una tesi accolta dal pm, che ha chiesto l’archiviazione poi accolta dal gip.
Il magistrato dell’accusa però è andato oltre: secondo lui il criterio della retribuzione, per quanto citato dalla norma, è di fatto inapplicabile come indicatore dello sfruttamento. Il motivo? “In Italia, com’è noto, non esiste nessuna forma di salario minimo inderogabile”. E anche il riferimento alla contrattazione collettiva, scrive nella richiesta di archiviazione, “è estremamente ambiguo e molto difficilmente valutabile in termini di indizi di reato, “poiché, come universalmente noto, essa non costituisce più un parametro di riferimento in qualche modo vincolante”, essendo legittima ogni deroga a livello aziendale. Dal 2011 infatti i contratti “di prossimità” possono derogare sia alla legge, sia ai contratti nazionali in un ampio ventaglio di materie (dall’inquadramento dei dipendenti alla disciplina dell’orario di lavoro) per raggiungere una serie di obiettivi, tra cui la “maggiore occupazione”, l’“emersione del lavoro irregolare” e “gli investimenti e l’avvio di nuove attività”.
Gli stipendi dei lavoratori dei minimarket, poi, sono stati ritenuti “di per sé non sperequativi o sproporzionati”, perché riferiti a part time da due o quattro ore per cinque o sei giorni la settimana, anche se poi, di fatto, l’orario era fino a 12 ore al giorno per sette giorni su sette. Anche i dipendenti ascoltati hanno parlato delle ore extra come di “straordinari” svolti su base volontaria, seppur non pagati. Ma, scrive il pm, “non è in nessun modo escluso che nei mesi o negli anni a venire, come avviene spesso in innumerevoli casi nelle aziende italiane, i lavoratori dipendenti avrebbero ricevuto i pagamenti delle loro ore di lavoro straordinario”. In un primo momento gli inquirenti, di fronte alle buste paga da fame, avevano anche ipotizzato che il titolare dei minimarket trattenesse il passaporto dei dipendenti per ricattarli e imporre condizioni capestro. I lavoratori però si erano detti sereni e avevano negato di aver subito minacce o altre forme di costrizione. Inoltre avevano dichiarato di non essere in uno stato di bisogno tale da dover accettare condizioni di sfruttamento. Gli stessi argomenti usati dal difensore, che può esultare. L’imputato, ha concluso il pm, non è responsabile di reati ma al massimo di una “gestione molto incauta” e un “atteggiamento di pura negligenza” sulle norme di sicurezza e le prescrizioni igienico-sanitarie, adempiute dopo l’apertura delle indagini.