di Giorgio De Girolamo
L’università come prolungamento della piazza, come luogo integrato nella città e nella comunità che la abita. Non un centro separato e chiuso che eroga servizi e prestazioni verso il pagamento di un corrispettivo in rate, ma un luogo che risente di quello che accade fuori dai propri cancelli. Che si propone, come centro propulsore del pensiero critico, di guidare in modo libero quello che avviene fuori, e non di esserne guidato. E’ muovendo da questi presupposti che un’occupazione universitaria che rivendichi la centralità dei luoghi di ricerca e formazione nel contrasto alla crisi ecologica e sociale che stiamo vivendo assume piena legittimità sociale e costituzionale.
Le occupazioni universitarie che in questi giorni, all’interno della cornice della campagna End Fossil-Occupy, si stanno organizzando in molti paesi europei – – in Italia è partita per prima Pisa la scorsa settimana e sta proseguendo a Roma e a Torino da lunedì – mettono al centro una gravissima contraddizione delle istituzioni accademiche (e non solo). Si tratta dello stretto rapporto che lega molte università a un particolare tipo di interessi privati: quelli delle società che operano all’interno del settore dei combustibili fossili (cosiddetto Big Oil). In Italia una su tutte, la ben nota Eni.
La presenza di Eni in università, come efficacemente esposto in un recente report realizzato da Recommon e da Greenpeace, assume molte forme: accordi di ricerca congiunti, partenariati nell’organizzazione di master e corsi di laurea (soprattutto materie STEM), comitati di indirizzo dei singoli corsi di laurea, acquisto di ricerche e brevetti e finanziamento di borse di dottorato. Accanto a questa presenza strutturale, vediamo Eni entrare nelle Università con “career days”, premi alla ricerca e seminari. In generale, secondo l’inchiesta su citata, 36 università su 66 contattate, più di una su due (di quelle che hanno risposto, quindi numero possibilmente più alto) dichiara di aver dei rapporti con Eni di finanziamento, accordi, patrocini o collaborazioni strutturali.
Di che influenza si tratta? Secondo quanto riportato da Eni stessa, nel 2022 il finanziamento alle università pubbliche italiane è stato di 10 milioni di euro. Risorse che per le università italiane sono giusto qualche briciola rispetto al budget complessivo dell’istruzione universitaria. Se però anche solo per delle briciole esse accettano di limitare la propria libertà di ricerca e di didattica significa che da un lato la responsabilità è anche del definanziamento pubblico che può renderlo, in alcuni frangenti, necessario, ma dall’altro molto è dovuto a un contesto culturale e politico che favorisce il proliferare di questa forma di legittimazione del capitalismo fossile.
Altre due proposte dell’occupazione sono da un lato un corso sulla crisi climatica per tutti i dipartimenti, progettato insieme agli studenti e ai movimenti ecologisti. Dall’altro la costituzione di una o più comunità energetiche e solidali (CERS) di cui facciano parte edifici dell’università. Esse infatti portano il beneficio, oltre che della produzione rinnovabile dell’energia, anche della riappropriazione da parte di piccole comunità del potere di decidere sull’energia e su come spendere gli incentivi pubblici previsti per la loro costituzione. Certo che non può bastare a coprire l’intera produzione energetica di un paese come l’Italia né può essere l’unico strumento di una complessa transizione (che non è solo energetica, merita ricordarlo), ma resta un necessario passaggio su cui investire.
Attraverso queste ultime due proposte, un’università finalmente libera dall’abbraccio mortale del cane a sei zampe (et similia), può svolgere attraverso una ricerca e una didattica non condizionate da interessi privati, il proprio ruolo nel contrastare la crisi climatica e sociale che stiamo vivendo.