La Corte penale internazionale si gioca la sua credibilità sulla questione del massacro tuttora in corso a Gaza. Molte sono le denunce che stanno pervenendo in questi giorni alla Corte a tale proposito. Colla nostra piccola associazione, il Centro di ricerca ed elaborazione per la democrazia (CRED), abbiamo aderito a quella redatta e promossa da alcuni avvocati, tra i quali Gilles Devers, che ha già raccolto l’adesione di oltre cinquecento avvocati e centinaia di organizzazioni sociali in tutto il mondo, che abbiamo pubblicato sul nostro sito credgigi.it e che invitiamo a sottoscrivere scrivendo alla nostra mail ricercademocrazia@gmail.com, specificando, per quanto riguarda gli avvocati, l’Ordine di appartenenza, per gli altri cittadini, la professione esercitata e per quanto riguarda le organizzazioni sociali il luogo di attività.

Tale denuncia non evita la questione dei crimini commessi da Hamas e da altre organizzazioni palestinesi per l’attacco del 7 ottobre, invocando l’effettuazione di un’indagine imparziale al riguardo. Tale esigenza appare molto imperiosa, dal momento che si susseguono, da parte della stessa stampa israeliana, notizie che tendono a precisare la portata di tali eventi. Il raggiungimento di un accordo degli ostaggi israeliani detenuti a Gaza e di un cessate il fuoco accompagnato dal ritiro delle forze israeliane dal territorio resta una priorità assoluta per garantire la sopravvivenza della popolazione e il soddisfacimento delle sue esigenze più elementari.

Ciò tuttavia non elimina la necessità della punizione dei crimini da chiunque commessi. E l’enfasi cade al riguardo soprattutto sull’accusa di genocidio mossa nei confronti delle autorità israeliane. La denuncia presentata alla Corte penale internazionale sostiene, a mio avviso correttamente, la sussistenza degli elementi sia psicologici che materiali di tale gravissimo crimine.

Contrariamente a quanto ritiene qualcuno sulla base di una visione semplificata del fenomeno, perché ricorrano gli estremi del genocidio non è necessario che siano sterminati tutti i membri di una comunità nazionale, anche perché adottando tale visione si verrebbe manifestamente meno alla funzione preventiva, oltre che repressiva, che ogni norma penale deve poter esercitare. Opportunamente la norma (art. II della Convenzione del 1948 sul genocidio) richiede pertanto l’intento di sopprimere in tutto o in parte una popolazione in quanto tale mediante una serie di mezzi. Tali mezzi includono l’eliminazione fisica, l’inflizione di gravi lesioni fisiche e mentali e la sottoposizione della popolazione stessa a determinate condizioni di esistenza.

La condotta manifestamente criminale delle autorità israeliane non lascia dubbi in proposito tanto più in quanto accompagnata a una serie di dichiarazioni che esplicitano la chiara intenzione di farla finita con Gaza e i suoi abitanti in quanto tali.

E anche in Cisgiordania non si contano ormai più le vittime dell’esercito e dei coloni israeliani. Pare proprio che la parte peggiore dell’establishment e del popolo israeliano voglia per così dire cogliere la palla al balzo per sterminare e/o deportare i Palestinesi, una sorta di orribile “soluzione finale” che veda finalmente l’autorealizzazione della profezia formulata a suo tempo dal movimento sionista sulla “terra senza popolo” destinata ad accogliere un “popolo senza terra”.

Lo sterminio in atto del popolo palestinese dimostra la fragilità del diritto internazionale e l’inconsistenza delle istituzioni internazionali a partire dalle stesse Nazioni Unite, le quali sono infine riuscite a varare una risoluzione del loro Consiglio di Sicurezza per il cessate il fuoco, ma dovrebbero invece essere in grado di inviare una forza sul terreno a protezione dei civili indifesi.

Molti si affannano in questo contesto a enunciare la necessità di evitare atteggiamenti da tifo calcistico per questo o per quello. Si tratta di un’esigenza in linea di principio giusta, ma che non deve per e nulla obnubilare la ricerca rigorosa delle responsabilità politiche e giuridiche del conflitto e dei crimini. Dobbiamo quindi dire che occorre fare il tifo per il diritto e per la giustizia e da questo punto di vista assume rilievo centrale il ricorso alla Corte penale internazionale che è stata creata proprio per rispondere in modo efficace a situazioni di questo genere, caratterizzate da violazioni massicce dei diritti umani di intere popolazioni.

Il ruolo delle Nazioni Unite, paralizzate dal veto statunitense e dall’atteggiamento irresponsabile e codardo di altri Stati, tra i quali purtroppo il nostro, è stato finora del tutto insoddisfacente, ma al tempo stesso si rivela irrinunciabile. La fine e la punizione dei crimini commessi costituisce una condizione imprescindibile per la soluzione politica e giuridica del conflitto, la quale richiede altresì il pieno riconoscimento dei diritti del popolo palestinese, ivi compreso quello a uno Stato dotato di tutti gli attributi della sovranità destinato a coesistere e cooperare pacificamente con quello israeliano, il rigetto di ogni Stato di tipo confessionale o basato sull’esclusività etnica e sulla discriminazione sistematica compiuta su tale base, e l’emergere in entrambi gli Stati di una nuova classe dirigente effettivamente disposta alla pace.

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