di Simone Lauria *
Di work-life balance si parla quotidianamente; ne parlano lavoratici e lavoratori, ne parla il sindacato, ne parlano le imprese; se ne parla facendo spesso riferimento solo allo smartworking, ammesso e non concesso che il lavoro agile sia davvero uno strumento di conciliazione tra i tempi di vita e i tempi di lavoro.
Il tema certamente ha un’importanza significativa nella gerarchia dei bisogni di lavoratrici e lavoratori; ma anche il mondo delle imprese guarda con attenzione agli strumenti di conciliazione se finalizzati a incrementi di produttività o alla fidelizzazione dei propri collaboratori; e, infine, si tratta di un tema che investe il mondo del lavoro ma che ha ricadute importanti nella società.
La questione della conciliazione tra i tempi di vita – quello del lavoro retribuito, quello del lavoro di cura e quello del tempo per sé – investe quindi più soggetti: il Legislatore, i policy-makers, sindacati e datori di lavoro; inoltre, se la questione non tiene conto di una prospettiva di genere si rischia che la conciliazione sia per pochi.
Si deve partire da un dato: la partecipazione delle donne al mercato del lavoro in Italia è pari al 56%, all’ultimo posto rispetto agli altri paesi dell’Ue; non solo: il fenomeno delle dimissioni volontarie è molto più frequente tra le madri che non tra i padri, per la difficoltà da parte delle lavoratrici di contemperare le esigenze della propria attività lavorativa con quelle della cura della propri figli; inoltre, anche la cura dei familiari più in generale ricade sulle donne, in un modello di welfare di tipo familista che contraddistingue il nostro Paese e che non fa altro che acuire maggiormente le disuguaglianze di genere.
A riguardo, la Direttiva Ue n. 1158/2019 ha imposto al nostro legislatore la necessità di intervenire al fine di conseguire la condivisione delle responsabilità di cura tra uomini e donne e la parità di genere in ambito lavorativo e familiare; il nostro legislatore ha introdotto disposizioni riguardanti la paternità obbligatoria – obbligo di astensione di 10 giorni, anche non continuativi, dai 2 mesi precedenti la data presunta del parto ed entro i 5 mesi successivi – ma gli strumenti di conciliazione per garantire un’effettiva condivisione delle responsabilità dovrebbero andare oltre la disposizione, pur apprezzabile, sul congedo di paternità.
Già la legge n. 53/2000 rinviava alla contrattazione collettiva l’individuazione di un sistema di congedi e di forme di flessibilità oraria e organizzativa per conciliare i diversi tempi di vita; quella legge fu il risultato di un contesto politico che allora favoriva le azioni delle organizzazioni di rappresentanza e di mediazione degli interessi e che, ben comprensibilmente, riteneva che l’autonomia collettiva avesse la funzione di definire modalità di organizzazione del lavoro finalizzate alla conciliazione.
Da una ricognizione dei contratti collettivi emerge che gli strumenti funzionali alla conciliazione sono presenti in modo frammentato; spesso, vengono aggregati in macrocategorie quali la responsabilità sociale d’impresa, la parità di genere e il welfare aziendale.
C’è poi una tipologia di accordi – sottoscritti dai sindacati non confederali – che aderisce a una concezione della conciliazione destinato a soddisfare le “esigenze” delle sole lavoratrici, in un’ottica di ripartizione “rigida” delle funzioni sociali, riproponendo un modello di welfare di tipo familista nel quale è la donna a doversi occupare dei lavori di cura; se la flessibilità oraria è destinata solo alle lavoratrici-madri, non sosteniamo implicitamente che della cura dei figli debbano occuparsi solo le donne?
Emergerebbe, sul tema della conciliazione, un sistema di contrattazione collettiva a due velocità: da una parte, esperienze contrattuali che, ispirandosi alle recenti disposizioni normative, tendono al superamento delle differenziazione delle tutele sulla base del genere; dall’altra, esperienze contrattuali che aderiscono invece a un modello datato che tende a considerare l’attività di cura familiare – motivo per cui si introducono tutele conciliative – di appannaggio quasi esclusivo del genere femminile.
Qual è il ruolo della contrattazione collettiva, evitando la riproposizione di modelli che accentuino, seppur in modo non sempre consapevole, gli stereotipi di genere?
In primo luogo, il contratto collettivo dovrebbe prevedere uguali diritti e medesime condizioni di esercizio – tranne, ovviamente, per gli aspetti fisiologici legati alla gravidanza – per madri e padri, introducendo eventualmente diritti anche per i componenti allargati della famiglia; si pensi, ad esempio, alla figura del genitore equivalente codificata dalla Direttiva Ue.
In secondo luogo, la contrattazione collettiva può introdurre condizioni migliori, in termini di economici e di flessibilità di utilizzo, rispetto alle fonti legislative; qualche esempio c’è, seppur in modo pressoché simbolico e riguarda solo specifici settori e comparti.
Infine: la contrattazione collettiva può intervenire laddove le previsioni di legge richiedano un contemperamento tra l’interesse dell’impresa e il diritto delle lavoratrici e dei lavoratori; i contratti collettivi, ad esempio, dettano regole specifiche in merito al preavviso per la fruizione dei congedi parentali stabiliti dalle norme di legge; su questo terreno, il sindacato può esercitare le proprie capacità negoziali per una flessibilità che tenga conto anche delle condizioni di quelle lavoratrici e lavoratori che si trovano in situazioni di particolare svantaggio.
*Ufficio Studi Camera del Lavoro Cgil di Milano