Chiedete come va la pesca a un pescatore di 80 anni: vi dirà che va malissimo e che 60 anni fa era tutto bellissimo. Uno di 70 vi dirà che 50 anni fa era molto meglio. Uno di 60 rimpiangerà il mare di 40 anni fa, e così via: la sindrome dello slittamento dei punti di riferimento. Tutto va per il meglio quando… abbiamo 20 anni. I “vecchi tempi” sono belli per chi, allora, era giovane. I tempi non cambiano, cambiamo noi. I giovani guardano con disgusto ai tempi dei vecchi, e si basano sugli attuali punti di riferimento. Li rimpiangeranno quando saranno vecchi.

“Ai miei tempi” fui sempre rimandato, dalla prima media alla quinta liceo scientifico, bocciato due volte, in seconda liceo e alla maturità. I miei genitori non incolpavano i professori, il colpevole ero io. Mio padre, portuale del porto di Genova, quando fui bocciato alla maturità mi fece fare una giornata di lavoro in porto, a scaricare quarti di bue, con un sacco di juta sulle spalle, entrando e uscendo dal vagone frigorifero dove si caricava la carne. Decisi che sarebbe valsa la pena di impegnarmi di più a scuola. Non percepii le rimandature e le bocciature come ingiustizie.

Erano i tempi delle contestazioni e eravamo pronti a pagare il prezzo delle nostre idee controcorrente. Il respingimento (i quadri dicevano: respinto) era parte del gioco. Niente privacy: i risultati erano pubblici. Alla maturità fummo solo in due ad essere bocciati, in tutta la scuola. Un record di cui mi vanto ancora.

Ho praticato uno sport (la boxe francese, o savate, molto popolare a Genova) e combattevo con un atleta che era, all’epoca, campione europeo. Ero il suo sacco da botte. Ce la mettevo tutta, ma non c’era niente da fare, era più bravo di me. Incassare calci e pugni faceva parte del gioco. Prima di darne bisogna imparare a prenderne: si impara l’umiltà.

All’università le cose cambiarono e mi capitò di essere avanti non dico a tutti, ma quasi. Vinsi il concorso da ricercatore, e poi quello da associato. Fui mandato a Lecce, dove non voleva andare nessuno. Non la presi come una condanna, mentre altri brigarono per “avvicinarsi a casa”. Il primo concorso a ordinario non andò bene. I vincitori erano più bravi di me e accettai la sconfitta. Il secondo lo vinsi. Mi presentai come direttore di Dipartimento, e come Presidente di Corso di Laurea: respinto. In compenso fui chiamato nell’Agenzia Nazionale per la Valutazione dell’Università e della Ricerca e in altre commissioni di un certo rilievo, non solo in Italia. Come al solito qualcosa andò male e qualcosa andò bene. Risposi a molti bandi per finanziamenti, fallendo. I fallimenti mi aiutarono a capire dove sbagliavo, e le cose cambiarono.

Fui temprato al fallimento sia dal sistema sia dalla mia famiglia. In effetti, fino all’università, non ce la misi affatto tutta! Dopo sì. Ma sempre pronto ad accettare sconfitte. Nel mio campo, la biologia marina, diversi miei allievi sono migliori di me. Potrei viverlo come un non raggiungimento di eccellenza personale, ma l’ho trasformato in motivo di vanto. Chissà che vita avrei fatto se fossi stato promosso alla prima maturità.

Oggi non è più come “ai miei tempi”. Le famiglie difendono i loro rampolli e non accettano fallimenti. Di solito non si portano i “falliti” a scaricare quarti di bue, si dà la colpa al sistema, ai docenti, agli arbitri. Mai a figli e figlie. Se sono bocciati si ricorre al Tar. Il “sistema”, dal canto suo, si è adeguato: non si rimanda più, o quasi. Dopo l’ennesima riforma universitaria ci fu detto che se gli studenti vanno fuori corso per non aver superato tutti gli esami e terminata la tesi di laurea, la colpa è dei docenti: tutti devono superare gli esami e laurearsi per tempo. Se questo non succede i “falliti” non sono gli studenti, siamo noi docenti. Alé… tutti promossi.

Magari modulando i voti da 18 a 30, mentre prima si era più esigenti. Vi fareste operare da un chirurgo che si è laureato con tutti 18? La vita non è così. Si può avere successo, ma si può anche fallire. Si può riuscire a realizzare i propri sogni, ma bisogna anche essere pronti a ridimensionare le proprie aspettative, adeguandole alle proprie capacità. Quando i nodi vengono al pettine, e la vita comincia a presentare il conto, le frustrazioni sono intollerabili se non si è temprati al fallimento. Rendersi conto di non avere diritto a tutto quello a cui si aspira, magari perché non lo si merita, viene vissuto come un’ingiustizia.

Questo vale nello studio, ma anche nel lavoro e in amore. Essere respinti dalla persona che diceva di amarti, magari perché il tuo amore le è diventato insopportabile, fa parte del gioco della vita. Bisogna essere in due per amare (questo non vale per i figli). L’accettazione del fallimento richiede allenamento. Generare aspettative di successo garantito (a cominciare dal 18 politico dei miei tempi) produce, a volte, mostri, oppure falliti. L’articolo 1 della Costituzione degli Stati Uniti riconosce il diritto alla felicità. Da noi è il lavoro. Forse l’aspettativa di felicità, intesa come diritto al soddisfacimento delle proprie aspettative, genera mostri. Proteggere dalle frustrazioni del fallimento le persone che amiamo non le rende felici.

Il segreto, per quel che mi riguarda, è fare tutto il possibile per ottenere il risultato sperato. Se si fallisce… si procede verso nuovi obiettivi: fallendo si impara.

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