La legge di bilancio del 2024 ha scollinato, per usare un linguaggio ciclistico, i giudizi delle agenzie di rating, quelle internazionali (3) e anche quelle nostrane (altre 3). Il risultato non è stato molto positivo. Il governo ha dato molto risalto a quelli delle agenzie internazionali, le tre sorelle arbitri della finanza internazionale, ignorando le altre. Fitch, Moody’s e Standard & Poor’s hanno confermato il giudizio precedente che colloca i nostri titoli appena al di sopra dei titoli spazzatura. La situazione, vista dalle tre sorelle, pur con qualche eccezione, non è migliorata ma almeno non è peggiorata. Il governo ha esultato e ne ha tratto subito la conclusione, molto ottimistica, che la nostra finanza pubblica sia solida.
La ragione fondamentale, come si ricava dal giudizio di Moody’s, il più generoso, è da ricercare nelle conseguenze positive (!) dell’inflazione. Il vertiginoso aumento dei prezzi aiuta il governo a rispettare i parametri di Maastricht che guardano alle grandezze nominali, e ha salvato il nostro sistema bancario con l’iniezione di golosi extraprofitti. Con il Pil fermo, non proprio un giudizio rassicurante quindi, ma ai mercati internazionali che comprano i Btp è bastato.
Molto peggio, e per questo ignorate, è andata invece nelle audizioni parlamentari dove Giorgetti ha dovuto affrontare il giudizio delle società di rating interne, Banca d’Italia, Istat e Ufficio parlamentare di bilancio. Qui la musica è improvvisamente cambiata e la bocciatura è arrivata secca, pur nel guardingo linguaggio degli esperti. I tecnici delle tre sorelle del rating italico non hanno fatto sconti al loro governo e hanno messo a nudo la menzionata fragilità della legge di bilancio per il 2024. La triplice si è trovata d’accordo su molti punti, un allineamento che non capita spesso. I temi da toccare, riportati nei corposi dossier pubblici sarebbero molti, ma qui ci limitiamo a due, uno di metodo e l’altro di sostanza.
L’insufficienza della legge di bilancio del 2024 è legata in primo luogo, come tutti hanno osservato, alla sua dimensione temporale. Tutte le principali misure scadono a fine anno. Per esempio, è limitato al 2024 l’accorpamento delle aliquote Irpef. Quindi, oltre ad avere il 730 annuale abbiamo anche le aliquote annuali. Tutto ciò alimenta l’incertezza e la confusione fiscale. Per non parlare poi del principale intervento, la riduzione degli oneri sociali a carico dei lavoratori. Anche qui l’orizzonte è limitato al 2024. Si procede come nella nebbia, un passo alla volta, senza idee e una bussola macroeconomica.
Ancora più critica è la valutazione sulla sostanza dei provvedimenti governativi. Questa è la prima finanziaria della melonomics e quindi ci si aspettava, soprattutto i molti ingenui cittadini che hanno votato la destra post-fascista, una decisa riduzione delle tasse, molte volte promessa nella campagna elettorale. Il problema è che purtroppo le risorse non ci sono, nonostante le entrate pubbliche volino. Come fare allora per mantenere le demagogiche promesse elettorali? Il governo è ricorso alla ricetta di sempre, cioè al gioco delle tre carte. Ne è nata una finanziaria che è un capolavoro di voluta iniquità.
La riduzione fiscale sul lavoro è stata finanziata in primo luogo con un nuovo debito chiesto al Parlamento, attirandosi anche la reprimenda della Commissione europea. Nel linguaggio asettico delle relazioni degli esperti il governo ha interrotto il processo di riduzione del debito. Con tassi di interesse che sono quattro volte la crescita economica, ingrossare il debito pubblico è una mossa da suicidio finanziario nel lungo periodo. L’altra metà della manovra è stata finanziata tagliando gli stipendi dei dipendenti pubblici, le pensioni e rispolverando la spending review, secondo il più classico dei copioni della destra prima berlusconiana e ora meloniana. Possiamo dire tranquillamente che la destra statalista e sociale non esiste più.
Ma almeno, qualcuno si potrebbe chiedere, questa politica economica fiscalmente classista stimolerà la crescita economica? La risposta degli esperti è stata chiara e negativa. Tagliare alcuni redditi per aumentarne altri, cioè rimescolare le carte, non da nessun contributo alla crescita economica, ma serve solo per fare, forse, cassa elettorale. L’unico modesto impulso può derivare dal finanziamento in deficit ma con un effetto trascurabile o quasi perché si vanno a sostenere i consumi e non gli investimenti. In soldoni, e per rubare una espressione alla retorica di Cacciari, una finanziaria palesemente “folle”, data la nostra bassa crescita e l’impennata della spesa per interessi. Si è redistribuito quello che non c’era, illudendo sull’economia molti italiani per un altro anno, tartassando altri peraltro.
Se lo Stato fosse una società per azioni, e la triplice italiana un organo di controllo, il bilancio sarebbe stato ampiamente bocciato, e l’esperto fiscale licenziato. Questo in un mondo economico normale dove ciò che conta sono i dati reali e non le fantasie contabili. Ma nel mondo oramai tossico della finanza pubblica meloniana, tutto sembra possibile. Tassare con un pesante deficit le generazioni future sembra essere la strategia preferita dal ministro Giorgetti, inventore del carpe diem fiscale. Da questo punto di vista la finanza creativa del prof. Tremonti era dilettantesca. Alla fine: una finanziaria fieramente politica come ha ripetuto spesso Meloni? Certo. Una finanziaria pessima? Altrettanto, con una piccola sintesi dei giudizi delle società di rating italiane.
Ma Meloni sicuramente si consolerà con il noto il proverbio secondo cui nessuno è profeta in patria, nemmeno i sovranisti. Lo vedremo alle elezioni europee dell’anno prossimo in vista delle quali la legge di bilancio 2024 è stata pensata e preparata.