“Svoltare a caz*o”. Se deve essere scontro generazionale-culturale da sbudellarsi dalle risate scontro sia. Il migliore dei mondi di e con Maccio Capatonda è il film definitivo su quanto noi boomer, e non parliamo di generazioni z e alpha, ci siamo rincoglioniti con i più inutili gingilli tecnologici. Ci voleva l’inequivocabile genio di Maccio per farci riassaporare l’autentica libertà di cosa significhi non avere il panico ad un incrocio sconosciuto se il navigatore va in tilt, si spegne o scompare. “Svoltare a caz*o”, appunto, come si urla nel film. Maccio rules. Anzi Ennio Storto, un elettricista iper tecnologizzato, proprietario con il fratello (Pietro Sermonti in versione anarco tossico deviante) di un negozio di smartphone e pc, che vive, dice lui, felice di appuntamenti su Tinder; usando Alexa per ogni possibile funzione casalinga; scrollando social ogni secondo per credere di capire nel profondo gli altri; simil Aranzulla nel dare consigli online in diretta per la sua indispensabile invenzione delle “luci nel water”.
Quando però la fricchettona Viola (Martina Gatti di Skam, qui perfetta tra lo svagato e l’hippie) porta al negozio di Ennio un modem 56k da riparare, l’uomo prima getta per terra l’orologino per le pulsazioni (a mille davanti a Viola), poi si schernisce sostenendo di non poter riparare un tale oggetto obsoleto, infine appoggiando il suo ultramoderno smartphone sul modem che tenta analogicamente di collegarsi alla rete si ritrova improvvisamente in un universo parallelo dove la storia nel 2000 con il Milennium Bug ha preso un’altra piega: la tecnologia è ferma agli anni Novanta (applausi per la “stampante che muove i tavoli”) e i maghi della Silicon Valley sono stati costretti all’esilio forzato.
Così Ennio cercherà in ogni modo di tornare a casa nel “suo” 2023 pieno di strumentazioni ultradigitali ma con anima e cuore trasformati (in meglio?). Tra smaccati plastici riferimenti a Ritorno al futuro, istantanee felici citazioni cinefile, e deliranti sfottò nell’osservare dal mondo parallelo le attività social che oggi compiamo (che Facebook o Instagram siano modalità di spiare gli altri ce lo aveva spiegato anche Fincher con Social Network), il surrealismo comico centrifugo di Maccio Capatonda rimastica un tema a lui caro (c’era già qualcosa, ad esempio, in Omicidio all’italiana) ed estende con assennata creatività il suo delirante spirito compositivo da trailer costruendo almeno un’ora di irresistibile inanellarsi di battute e situazioni comiche da tenersi la pancia.
Maccio è genio prima di tutto perché la sua iperpresenza in scena non mette in ombra mai trama e ordito, perché la sua recitazione in scena sfuma continuamente in mille passetti di lato, perché la risata nasce da un lavoro collettivo con attori e contesto. Senso del cinema e del comico a casa di Maccio ci sono eccome. Meglio di un film Zalone, del resto, proprio perché la satira di costume e sociale di Capatonda scava brillantemente sottopelle dell’uomo globalizzato più del teatrino frusto dei crassi ruvidi stereotipi zaloniani. Forse gli ultimi venti minuti di film si incartano a livello di scrittura attorno ad un paio di intrecci di troppo (anche se Stefano Lavori in salopette merita assai), ma ci sono momenti iniziali da Oscar (il plof delle feci nel water mentre Ennio è seduto e scorre i video di TikTok fissando lo schermo) e una voglia matta di disarticolare certezze culturali e codici formali del cinema comico. Producono con sincera vicinanza Lotus Production, Raffaella e Andrea Leone. Sceneggiatura di Danilo Carlani, Barbara Petronio, Gabriele Galli e Maccio. Regia di Maccio, Carlani e Alessio Dogana. Last but not least: il film è solo su Amazon.