Un libro in cui una piccola storia – quella di Irina, professoressa di lettere che fugge dall’Ucraina in Italia per fare la badante – si fonde con la grande storia: quella dell’Ucraina, dalla caduta del muro di Berlino a oggi.

È un libro duro e vero, L’ultimo treno da Kiev, Les Flâneurs edizioni, di Stefania Nardini, giornalista e scrittrice. E ha una sua storia, questo libro. La Nardini lo scrisse dopo un viaggio in Ucraina e, nel 2001, una prima edizione (diversa da questa, con il titolo Matrioska) fu pubblicata da un piccolo editore, Tullio Pironti. Successe altro. In Ucraina fu fotocopiato e circolò clandestinamente. Dissero che non poteva essere stato scritto da un’italiana, l’autrice, sostennero i giornali di opposizione, è sicuramente ucraina.

In realtà la Nardini è stata la prima autrice italiana ad essere tradotta in Ucraina.
Ma veniamo all’incipit. È Irina che parla (il libro è scritto in prima persona).

Non conoscevo la libertà. Il grande Muro era crollato e tutto era cambiato. Il nuovo stava cedendo il passo alla notte dei fantasmi. Una notte lunga. Che nessuno immaginava. Il Muro era crollato. Come era crollato qualcosa in me. Era crollata la mia storia con Nicolaj. Il padre di mia figlia. Stava crollando questo paese incapace di restituire speranza. La libertà. L’avevo immaginata come un vento di primavera. Invece era inafferrabile. Difficile da identificare. Volevo sperare. Ma non sapevo come. Intorno a me immagini disperate. Disarmanti. Non avevamo perso né gloria né ricchezza. Avevamo perso il futuro. Che libertà è se non si può sognare?

Irina è una donna disperata. Insegna, ma sono mesi che non percepisce lo stipendio. Ha una figlia, ma non ha il denaro sufficiente per farla studiare. Non le resta che seguire la strada percorsa da tante donne ucraine: quella della fuga. Sceglierà l’Italia, del resto conosce le canzoni di Ramazzotti e Celentano.

La vicenda parte, quindi, da Kiev e dall’Ucraina. Anche se, come detto, il libro è in prima persona, la Nardini, che è una giornalista vecchio stampo, non fa sconti. Ci racconta così di un paese dove si sta affacciando il capitalismo russo, di un paese piegato in due dalla fame – le signore anziane che vendono arance in cambio di qualche spicciolo da mettere nella borsa, perché loro non tendono la mano -, un paese in cui bisogna pagare il pizzo per sopravvivere. Irina è disperata, sa che versando una certa cifra a un’associazione, può fuggire in Italia, dove l’attende una vita da clandestina, ma potrà comunque mandare soldi alla sua famiglia. E far studiare sua figlia.

Non vorrebbe andare via, lasciare i genitori anziani, le figlia, gli amici. È combattuta, trascorre notte insonni. Ma alla fine decide: fuggirà per sua figlia. Con Irina ci sono altre donne. Sognano un lavoro, ma alcune di loro, le più giovani, finiranno col lavorare nei night. Insomma, la tratta delle ucraine – e anche qui la Nardini non fa sconti nella narrazione – trova terreno fertile nel nostro paese.

Irina è più fortunata delle altre, perché viene ospitata da una famiglia a Montepulciano. La signora che l’accoglie, Rosa, una ex giornalista, la tratta come una sorella. Tra le due c’è un bel rapporto, Irina sa di essere fortunata. Un giorno, però, decide di andarsene: andrà a fare la badante da qualcuno che la pagherà meglio. È una decisione sofferta. Tornano le notte insonni, sa che andandosene farà un torto a Rosa, alla quale comunque è legata. Ha un grande debito di riconoscenza con lei. È grazie a Rosa se non è finita in qualche giro losco, magari a battere. A Rosa lei vuol bene, ma il suo cuore adesso è ruvido, quello che ha vissuto l’ha cambiata: fugge un’altra volta, l’importante è guadagnare.

Nel finale del libro c’è anche spazio per la situazione attuale.

Un libro duro, con una scrittura incalzante, dura e senza orpelli, “alla Jean-Claude Izzo” (di cui la Nardini, che ha vissuto a Marsiglia, è stata biografa). L’ultimo treno da Kiev, Les Flâneurs edizioni, di Stefania Nardini, scrittrice giramondo e gran giornalista.

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