Joel “Magic” Embiid
Nella NBA odierna, esistono idealmente due categorie di centri (o pivot se più gradito…). Centri “slasher”, ovvero grandi atleti, bravi come rollanti nel pick-and-roll, puntuali nella ricezione degli scarichi sotto canestro, stoppatori, con un gioco in post-basso poco sviluppato e zero velleità da oltre l’arco. In questa categoria, entra gente come Clint Capela di Atlanta o Rudy Gobert di Minnesota, per citarne un paio. Poi ci sono i centri “evolution”: maggior feeling per il gioco, movimenti solidi in post-basso, capacità di giocare fronte a canestro e mani dolci per il tiro (dalla media, ma anche da tre). Il più forte di questa seconda categoria? Si chiama Joel Embiid e gioca a Philadelphia. Ora, il centro dei Sixers è stato l’MVP e il miglior marcatore della scorsa stagione, quindi non è certo un mistero. Quest’anno, tuttavia, Embiid ha ulteriormente portato il proprio gioco su nuove vette di raffinatezza tecnica. È migliorato ancora come passatore, sia dal punto di vista numerico (6.2 assist contro i 4.1 del campionato precedente, che per il ruolo già non erano noccioline) che qualitativo. E ai Sixers sta facendo un baffo la partenza di Harden. Anzi, sembrano avere più in ritmo in attacco, fermano meno la palla, appaiono un po’ più fluidi, giocando meno pick-and-roll e più dribble-handoff rispetto al passato (ma siamo solo all’inizio del campionato). Così Joel Embiid sta servendo (alla “Magic Johnson”) i tagli in modo divino dal post alto e dalla posizione di ala, oppure riceve e trova l’uomo sul perimetro con estrema precisione per un tiro in catch-and-shoot. A tratti sembra Hakeem Olajuwon (rispetto al quale però ha molti meno movimenti sul perno). Tanto talento, tanto carisma, tutto al servizio di un paio di mani al bacio e un fisico (2.13 metri) che intimidisce già mentre si cambia negli spogliatoi. Per il resto, è rimasta la classica superstar in grado di portare il proprio avversario spalle a canestro e fargli male nella coscienza, per non parlare della completezza offensiva, con turn-around-jumper dal centro area, jab-step e tiro dalla media, movimenti in avvicinamento (mettendo palla a terra) e partenze in palleggio dal post alto. Le sue cifre dicono 31.9 punti, 11.3 rimbalzi, 6.1 assist e quasi due stoppate ad allacciata. E la corsa al nuovo trofeo di Miglior Giocatore è sempre lì, lucida, altamente ripetibile (Jokic permettendo).
Paolo Banchero da tre!
Scordarsi le inutili polemiche legate al suo “rifiuto” di far parte della Nazionale Italiana. Qui si parla solo del campo. E il campo dice che il “paesano” ha lavorato molto sul tiro in estate e i risultati (al momento) si vedono, visto che il 29.8% da tre punti della scorsa stagione faceva sinceramente accapponare la pelle. Anche perché, Paolo Banchero è un lungo (in grado di far paniere) molto dotato palla in mano, che ama fronteggiare il canestro, nessuna inclinazione verso il post basso, tantomeno verso l’uso del piede-perno. E se non la metti da fuori, con quello stile lì, duri qualche stagione, ma poi finisci a fare “massa” in un roster, altro che vedere alcuni giochi disegnati per te dal coach, figuriamoci l’All-Star Game. Ecco, la mano di Banchero – in questo inizio di regular season – sembra di una precisione pressoché “ray alleniana”, perché il 45.5% da oltre l’arco (con un numero di tentativi non altissimo, ma accettabile) se mantenuto fino alla fine è da primi posti nell’apposita classifica. Ma oltre ai numeri, vuol dire anche di più. Vuol dire che il difensore deve marcarti faccia a faccia e quindi si aprono maggiori spazi per l’uno-contro-uno in entrata. Si creano le condizioni per andare di più in lunetta a tirare i liberi (anche se non è un mago in questo, appena 66% di realizzazione) e caricare di falli gli avversari. Si libera con più facilità l’area dal tuo marcatore (che ci penserà due volte ad andare a raddoppiare o aiutare su un’entrata altrui) a beneficio del ritmo e delle opportunità dei compagni. Per Banchero, al momento, 19.4 punti di media con 6.4 rimbalzi e 4.3 assist. I Magic (sorpresa) sono secondi a Est (10 vinte, 5 perse).
Draymond Green, dai su…
È stato sospeso per cinque partite senza stipendio dalla NBA per la mossa da Wrestling eseguita sul collo di Rudy Gobert nella gara tra Golden State Warriors e Minnesota T-Wolves. Uno spettacolo imbarazzante. Ma un giocatore come lui deve ancora scadere in questi gesti gratuiti da bulletto di periferia? Che senso ha? Green non è più un ragazzino, ha quattro Titoli NBA in tasca (giocando da protagonista), Difensore dell’Anno, i Warriors ritireranno la sua maglia una volta smesso, probabilmente sarà anche eletto nella Hall of Fame. Al di là del gesto violento (da condannare senza se e senza ma), farà mancare alla propria squadra una pedina fondamentale per cinque gare (non sono poche, anche perché bisogna mettere in conto che vanno ad aggiungersi a eventuali infortuni nel corso dell’anno) in un momento così difficile della stagione (Golden State è in basso nella classifica dell’Ovest). E per cosa? Giocare duro, fare la faccia cattiva, non è un male sul campo da basket, soprattutto se sei un’ala sottodimensionata, e non hai un tiro in grado di far tremare i polsi agli avversari. Anche Ben Wallace dei Pistons nei primi anni del 2000 giocava duro, faceva lo sguardo truce, non perdonava nessuno, e vinceva. Con un altro stile, però. Decisamente. La tensione puoi tenerla sempre alta con altri mezzi, molto meno violenti.
That’s all Folks! Alla prossima settimana.