di Flavio Oreglio
Ho visto il film “Io, noi e Gaber”, bellissimo, realizzato molto bene e con dei contenuti stupendi forniti dalla Rai e dall’Istituto Luce. Curata e diretta da Riccardo Milani, la pellicola regala grandi emozioni, unico piccolo neo “tecnico” è la durata… effettivamente è un po’ lunghetto. Niente di grave comunque. Il film è ottimo e ci restituisce e immortala quell’artista strepitoso che è stato, è e per sempre sarà, il Sig. G.
Piccola nota metodologica: ho diviso questo intervento in due parti, nella prima esporrò in breve le mie osservazioni, nella seconda (facoltativa e riservata ai più curiosi) fornirò più nel dettaglio le motivazioni (documentate) che stanno alla base delle idee sostenute.
Entro subito in medias res.
Cominciamo dal titolo: Io, noi e Gaber. Fin dal suo annuncio la prima cosa che mi sono chiesto è stata “Chi è “Io”?”. Quando nel 2005 Partecipai a Viareggio al Festival del Teatro Canzone mi fu chiesto di scrivere qualcosa sul mio rapporto con Gaber e ricordo che intitolai quel manufatto, per l’appunto, “Io e Gaber”. Tuttavia quell’”io” era stato espressamente richiesto ed era l’”io scrivente”, cioè il sottoscritto. Ma qui l’”Io” chi è? Chi è quell’”Io” che seguito dal “noi” relega Gaber in fondo alla frase? Boh! Non è chiaro… a logica dovrebbe essere il regista, ma probabilmente non è così. Credo che forse “Gaber” sarebbe stato un titolo più appropriato.
Andiamo oltre. Tralasciando qualsiasi commento in merito ai personaggi interpellati come testimoni – situazione sulla quale per il momento sorvolo ma che brilla più per le assenze, che per le presenze – il film rilancia la tesi molto diffusa del “doppio Gaber”: c’è un Gaber “prima del Teatro Canzone” e un Gaber “del Teatro Canzone”. In termini temporali, lo spartiacque culturale è individuato nel 1968, quello effettivo è il 1970. Si suole dire che a un certo punto a Gaber la TV “va stretta”, e quindi la abbandona per potersi esprimere come vuole, al riparo dalla censura del video.
In realtà non c’è un Gaber “leggero” prima e un Gaber “impegnato” dopo, come se questa trasformazione fosse l’esito di una sorta di folgorazione sulla via di Binasco, ma un solo Gaber che cresce e si evolve costantemente con logica e coerenza perché figlio di un particolare humus culturale – al quale lui risultò sensibile, mentre altri no – che ha caratterizzato gli anni ’50 e ’60, anni in cui prendeva piede l’idea di una “cultura alternativa” contrapposta a un mainstream che, con l’avvento della TV nel 1954, diventava sempre più potente e, ovviamente, controllato.
È proprio nel trattare questo lasso di tempo, cioè il momento del cosiddetto “primo Gaber” che il film presenta alcune lacune. In generale (non solo nel film), anche se non si dice mai in modo esplicito, si tende un po’ a sottovalutare il valore e il significato di questa fase del personaggio, in contrapposizione all’esaltazione della fase successiva. Invece, proprio questo momento, non solo è importantissimo, ma contiene già i germi di quella che sarà la sua futura esplosione.
Per esempio – e questa mi pare la cosa più assurda in assoluto – nel film non si fa alcun accenno alla figura di Umberto Simonetta, straordinario autore dei testi delle prime canzoni più caratteristiche di Gaber e viene relegato in un piano marginale il ruolo che ebbe Maria Monti nella vita artistica di Giorgio. Last but not least, non c’è traccia della frequentazione che Gaber ebbe con il mondo del cabaret che proprio in quegli anni visse a Milano la sua epoca d’oro.
Detto questo ho detto tutto. Prove, dettagli, documentazioni e approfondimenti li trovate nel seguito se volete.
Un ultimo appunto che mi preme molto: questa chiave di lettura non sminuisce certo il mito o la portata di Giorgio Gaber, anzi, ne esalta ancora di più (se possibile) la figura, perché – come dimostra l’analisi più dettagliata riportata in seguito – testimonia il coraggio, l’intelligenza e, soprattutto, la coerenza di un artista immenso, ancora più grande e interessante di quanto già non appaia nel film. Tra l’altro, mettere in rilevo questi particolari significa porre attenzione non solo al “seme” (il personaggio Gaber) ma anche al “terreno di coltura” (la forma mentis alternativa molto diffusa in quel periodo storico) che gli ha permesso di fiorire. Infatti, una domanda possibile e veramente interessante è: com’è potuto nascere un “Gaber”? Il mondo di riflessioni che si cela dietro un simile quesito è sconfinato e periglioso ma da un lato può fare luce sul significato del sospiro gaberiano E pensare che c’era il pensiero, e dall’altro può riscoprire possibili antidoti utili per contrastare la deriva dei tempi attuali. Certo, potrebbe essere necessario doversi rimboccare le maniche, ma se succederà, la generazione di Gaber non avrà perso.