È in fase di negoziazione un finanziamento da 500 milioni di dollari provenienti dalle tasche degli italiani, alla compagnia petrolifera statale del Perù, già nota per disastri ambientali e violazioni. Sace, partecipata statale, potrebbe destinare la somma al progetto di Petroperù di ammodernare la raffineria Talara, la più importante del Paese latinoamericano. Per raggiungere il massimo della produzione sono previsti nuovi pozzi petroliferi nell’Amazzonia peruviana. Il combustibile, trasportato attraverso il l’oleodotto Nord peruviano, verrà poi raffinato nello stabilimento “nuovo”. I rischi – secondo l’ong Amazon Watch – “sono politici, sociali, finanziari, ambientali e legali”. In ballo ci sono da un lato 95mila barili al giorno, dall’altro la foresta amazzonica e 7 nazioni indigene che vivono nella foresta, cui è stato negato il diritto al consenso previo, libero e informato. Per questo affare da 5 miliardi di dollari, Petroperù si è indebitata.

La società è ritenuta responsabile di oltre 94 fuoriuscite di greggio dal 2001 al 2019. Tra gli indigeni sono stati rilevati livelli preoccupanti di mercurio, cadmio, piombo e arsenico nel sangue. Nel 2016, in una delle comunità indigene interessate da questo progetto di espansione, 500mila litri di combustibile finirono in un fiume. In cambio di una ricompensa economica disattesa, Osman Cuñachi, 11 anni, accorse a riempire i secchi. L’esito fu devastante. L’immagine con le chiazze di petrolio su tutto il corpo fece il giro del mondo. La società, che ha investito circa 4,3 milioni di dollari per i danni ambientali, fino allo scorso anno era coinvolta in 8 cause legali, con 5 milioni di dollari di sanzioni economiche. Negli ultimi mesi le comunità indigene Achuar, Wampís, Chapra, Awajún, Quechua, Shawi e Shiwilu hanno scritto a Sace per chiedere un incontro. Né la società né il Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef) né quello degli Affari esteri (Mae) hanno risposto.

“Finanziando la compagnia statale Petroperú, che ha dichiarato di avere in programma l’apertura di nuovi siti di esplorazione petrolifera – dice Mary Mijares, Fossil finance campaigner di Amazon Watch – Sace e, per interposta persona, il governo italiano rischiano di peggiorare le condizioni materiali delle comunità indigene amazzoniche e costiere del Perú. Inoltre, si accelererebbe la distruzione della foresta amazzonica, uno degli ecosistemi più vitali della Terra. Pertanto, i recenti impegni ‘green’ e il ‘rating Esg’ (ovvero il grado di sostenibilità nda) di Sace hanno poco o nulla a che vedere con il finanziamento consapevole di un’azienda che mette in pericolo sia i diritti che il clima”.

La probabilità che a Petroperù venga garantito mezzo miliardo di dollari è elevata. Sace mantiene il profilo basso. Non un riferimento sul sito, né una risposta alle domande che Il Fatto Quotidiano ha posto. A lasciarne traccia è Petroperù nel rapporto dello scorso maggio sul guadagno trimestrale: “Ad oggi proseguono gli sforzi per assicurarsi un prestito a lungo termine con copertura da parte dell’export credit agency italiana Sace (fino a 500 milioni di dollari), che è in fase di negoziazione”, scrive. Nel rapporto successivo di novembre il riferimento non c’è più. Nel frattempo si è espresso il Mae. All’interpellanza del 7 luglio dal deputato Angelo Bonelli di Alleanza Verdi e Sinistra, che ha richiamato l’indagine di ReCommon, ha risposto il sottosegretario di Stato Giorgio Silli. Contrariamente alle evidenze scientifiche, il governo considererebbe l’investimento sostenibile dal punto di vista ambientale. La politica climatica di Sace mira a non investire nel carbone, non nei combustibili fossili. “Per quanto concerne l’operazione relativa alla società Petroperù – ha detto Silli – in base alle informazioni ricevute da Sace, essa è in linea con la illustrata policy sui cambiamenti climatici. Come condizione per il perfezionamento dell’operazione, sarà prevista la nomina di un advisor indipendente che attesti la validità del piano di transizione energetica”. Seguirà un monitoraggio annuale. “Sace – fa sapere Bonelli – tra il 2016 e il 2022 ha concesso 15,1 miliardi di euro di garanzie a progetti di petrolio e gas”. Nell’interpellanza sono finiti anche i possibili conflitti di interesse tra Sace ed Eni. Il sottosegretario del Mae li ha esclusi: il presidente di Sace Filippo Giansante non è più nel cda di Eni. Ma dell’avvocata Cristina Sgubin, nel cda di Eni e in quelli di Sace, Ispra (che si occupa di ricerca e protezione ambientale) e di Vianini spa del gruppo Caltagirone (che si occupa di cemento), nessun accenno.

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