“Lei mi chiede quali sono i segnali a cui i genitori dovrebbero prestare attenzione per capire, ad esempio, se un figlio è violento? Bene, io le rispondo che cercare i segnali non serve, perché i segnali non ci sono. Come non serve in nessun modo aumentare il controllo – paranoizzando il mondo esterno – su dei figli che sono già tra i più controllati della storia”. Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta e autore di importanti pubblicazioni sull’adolescenza – tra gli ultimi Sii te stesso a modo mio. Essere adolescenti nell’epoca della fragilità adulta e L’età tradita. Oltre i luoghi comuni sugli adolescenti, entrambi Cortina editore – non ci sta a dire che casi di cronaca, come quello del femminicidio di Giulia Cecchettin, su cui l’Italia si sta interrogando, nascano da una presunta mancata sorveglianza dei genitori sui ragazzi, che andrebbe aumentata. Né che il problema siano i contenuti violenti “là fuori”, da internet alle canzoni dei trapper.

Ma il presidente della Fondazione Il Minotauro di Milano non è l’unico ad avere queste posizioni. Gli esperti, psicologi e psicoterapeuti, concordano sul fatto che il panico che si è diffuso nelle famiglie italiane dopo il drammatico caso di Giulia non si risolva in alcun modo con i “parental control”, bloccando internet, agendo insomma sull’esterno o comunque cercando segnali. “Non esiste alcuna ricetta, purtroppo, non è che si è assassini perché si hanno certi ingredienti. Dico purtroppo altrimenti anche noi clinici le useremmo”, afferma Franco Del Corno, psicologo e psicoterapeuta e autore del libro Ripartiamo dai genitori. Capacità e competenze per sostenere gli adolescenti nel percorso di crescita (Franco Angeli editore).

Nessun “segnale” ha un significato univoco
Il punto su cui gli esperti convergono è che è impossibile dire a prescindere se un certo comportamento si trasformerà in un certo tipo di violenza. Spiega sempre Lancini: “A posteriori sono tutti bravi a dire che c’era quel comportamento o quell’altro, ma la verità è che è tutto estremamente complesso. E non è che, ad esempio, se un ragazzo non va a scuola per un periodo diventerà un ritirato sociale, oppure se ha un rapporto morboso diventerà un serial killer. È impossibile pensare che si possano identificare dei segnali”. Ma è complicato anche dire che chi uccide fosse certamente uno psicopatico nascosto. “Che un progetto vendicativo si trasformi in un progetto violento”, continua il presidente della Fondazione Il Minotauro, “dipende da fattori precipitanti: certo è chiaro che c’è dietro una fragilità particolare, ma è vero anche ogni storia è unica ed è impossibile prevedere a prescindere. Così come è impossibile spesso prevedere un suicidio, quattro volte più frequente nei ragazzi che nelle ragazze”.

Assurdo, per chi si occupa di curare adolescenti dal vivo, è anche fare diagnosi a posteriori, magari basate sulle notizie di cronaca. “È difficile fare dei discorsi sul funzionamento psicologico di una persona persino conoscendola o incontrandola in uno studio nel rapporto clinico, figuriamoci senza”, commenta Franco Del Corno. “E poi l’altro aspetto che trovo sconsolante è che ci si cominci a interrogare sul rapporto genitori-figli dopo la morte della povera Giulia: ma perché prima andava tutto bene? Ci facciamo delle domande ora? Anche sul patriarcato? Anche sul maschilismo diffuso? Questo mi ricorda quei genitori che fanno domande sul modo di alimentarsi delle figlie quando in classe capita un caso di anoressia, viceversa va tutto bene”.

Altro che controllo, serve parlare. Anche di questioni disturbanti
Ma cosa fare, allora? La risposta degli esperti è unanime: “Sicuramente non si tratta di aumentare il controllo, ma la accrescere la bidirezionalità della comunicazione”, spiega Del Corno. “Creare cioè un clima che induca nei ragazzi la voglia di raccontare cosa succede, altro che fare gli ispettori di polizia”. “Sì, il vero tema”, continua a sua volta Lancini, è creare un clima che, invece di controllare, consenta ai ragazzi di poter parlare, di esprimere le proprie emozioni più disturbanti, le proprie tristezze, i propri conflitti. Certo, i genitori di oggi ascoltano, forse persino più del passato, ma il problema è che ascoltare non basta più. Bisogna fare le domande giuste, quelle coraggiose – Sei triste? Hai idee di suicidio? Pensi di diventare violento? – perché è solo così che si possono intercettare i famosi segnali di disagio. Insomma non trasformandosi in Tom Ponzi, per dirla con una battuta”. Lo psicoterapeuta fa un esempio: “Se un ragazzo dice ad un genitore ‘Papà mi ha lasciato la ragazza se non torniamo insieme mi ammazzo’, la cosa più sbagliata che si può fare è sdrammatizzare, con frasi come ‘ma dai, morto un papa se ne fa un altro, ti passerà’. Insomma il punto è: abbiamo le parole, le frasi che i ragazzi ci dicono, siamo in grado di ascoltarle, di drammatizzarle nel modo giusto, oppure le banalizziamo?”.

“Non vorrei utilizzare il termine inflazionato di dialogo, ma la questione è esattamente quella dell’ascoltarsi”, riprende Del Corno. “Insomma, siamo esseri dotati di parola e dunque possiamo capire, parlandoci, se ci sono difficoltà. I figli andrebbero sollecitati, certo, ma non a partire dal caso di cronaca: chiedere deve essere una abitudine quotidiana, perché questo consente una cosa fondamentale, cioè seguire le vicende evolutive dei figli, le cose tristi e felici che costellano la loro vita. D’altra parte, i figli, per poter essere parlare devono avere fiducia di essere ascoltati e non avvertire che l’unico interesse dei genitori sia che stiano tranquilli, vadano benino a scuola, mangino regolarmente e non si droghino”.

Il problema non è internet, né la trap
Ma se un ragazzo esprime, ad esempio, un desiderio di violenza, a quel punto che fare? Risponde Lancini: “Si resta a parlare. Si cerca di capire meglio, si ascoltano le ragioni. Talvolta questo produce una trasformazione, magari il ragazzo piange, trasformando le emozioni di rabbia in tristezza, con meno solitudine. Capisco che sia difficile, ma l’unico modo è accogliere, non dire ‘ma cosa stai dicendo?’: noi non capiamo davvero cosa significhi crescere in una società così complessa, che alimenta individualismo, competizione e violenza. Ma non vediamo che modelli violenti proponiamo ai ragazzi ogni giorno nella comunicazione televisiva, politica e sociale?”.

L’altro problema, ammettono gli esperti, è che non sempre i ragazzi parlano. Ma il punto resta sempre lo stesso: “Creare il contesto emotivo giusto con le domande giuste, poi se un ragazzo non vuole aprirsi con sua madre va anche accettato, è persino normale”, spiega Lancini. “I ragazzi parlano quando trovano un interlocutore, non è detto che sia in famiglia. Ma, ripeto, abbiamo bisogno di alfabetizzarci emotivamente noi, questo serve e non le app per controllare i minuti su internet o i contenuti”.

Dunque non ha senso intervenire su internet e la sua violenza? “Basta demonizzare internet”, dice netto lo psicoterapeuta Del Corno, “è anche un’occasione di comunicazione, cosa sarebbe stata la pandemia senza internet? Certo, è vero che spesso si va a cercare fuori dalla famiglia quello che dentro la famiglia non si trova e non è detto ovviamente che lo si trovi nelle condizioni e situazioni giuste. Ma il problema è quando ogni generazione va per la sua strada e non sente il bisogno di entrare in contatto con l’altra, in questo caso quella dei genitori”.

Che internet non sia il problema, e neanche i testi dei trapper, lo crede anche Lancini. “Educare serve, a casa e a scuola, ma educare includendo internet, non lasciandolo fuori. Invece la questione dei testi dei trapper o rapper è abbastanza assurda, pensiamo alla musica degli Settanta, o al wrestling, che è una violenza figurata. Il punto è chiedere perché a queste generazioni piace quella cosa, non negarla. Faccio un esempio: qualcuno ha proposto di non far vedere ai ragazzi i manga: ma come, sono testi al cui centro ci sono ragazzi tristi in un mondo con adulti evanescenti e che attraverso il sostegno dell’amicizia escono dalla depressione e noi glieli vogliamo togliere? Per noi è sempre colpa di qualcosa di esterno, la pornografia, i videogiochi, così siamo sempre assolti e dimentichiamo che i ragazzi vanno su internet perché non trovano nella mente degli adulti – non solo genitori – la possibilità di parlare di questioni dolorose. Sono tutte scuse per non vedere le nostre fragilità educative”.

Ma, infine, contro l’aspetto patriarcale e maschilista della società non si può fare nulla? Assolutamente sì, affermano gli esperti. Ma un genitore può farlo soprattutto in un modo: “Con l’esempio. Se in una famiglia la moglie non ha accesso al conto corrente, questo suggerisce ai figli che maschi e femmine siano in una situazione di disparità e che così funzioni il mondo. La parità di genere si impara in famiglia. E sempre in famiglia”, conclude Del Corno, “si impara anche la parità tra generazioni. Un genitore non può approfittare della sua posizione, anche economica, per ricattare i figli. E se essere genitori è un mestiere duro, io direi che un mestiere molto più duro è essere figli. Ovvero nascere in una famiglia che non si è scelti, trovarsi a giocare su un tavolo che è stato costruito da altri”.

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