“Una sentenza importante perché riconosce alla donna il diritto di avere un figlio con la Procreazione medicalmente assistita senza che nessuno rivendichi il ruolo di padre quando non è stato un progetto comune”. È l’avvocata Irma Conti che dà una lettura specifica e che va oltre la decisione nel merito del Tribunale di Milano che ha respinto la richiesta di un uomo che chiedeva il riconoscimento del bambino che l’ex compagna aveva avuto ricorrendo alla procreazione medicalmente assistita all’estero da un donatore anonimo. Per i giudici non basta sostenere la propria compagna nella pianificazione della maternità per poter diventare ‘genitore sociale o intenzionale’. La donna, difesa dagli avvocati Irma Conti e Ilaria Guarciariello come riporta l’Adnkronos, aveva rivendicato la scelta come propria ed esclusiva per costruire una famiglia monogenitoriale in totale autonomia sottolineando come, anche dopo la nascita del bambino, il rapporto con il compagno era andato avanti per gran parte a distanza. E che, a detta della donna, anche se c’erano stati dei momenti di condivisione tra l’uomo e il bambino “si era trattato solo di 48 giorni con incontri anche solo di un quarto d’ora” a fronte dei quattro anni del piccolo.
Per i giudici “non è stata raggiunta la prova puntale che il ricorrente avesse assunto un ruolo paterno nella vita del minore, attraverso l’esercizio dei diritti e dei doveri finalizzati alla crescita del figlio ed allo sviluppo della sua personalità, con una frequentazione qualificata nell’ambito della quale il minore avrebbe potuto identificare nel soggetto una figura paterna, godendone delle cure, dell’assistenza morale e materiale, della istruzione e della educazione”. Il Tribunale ha ritenuto infatti “pacifico che l’uomo che ha pur in parte sostenuto la compagna nel suo progetto di maternità” accompagnandola all’estero la prima volta e “l’ha qualche volta incoraggiata con messaggi telefonici, ne sia rimasto del tutto estraneo”. A riprova nella sentenza viene riportato come l’uomo non abbia sottoscritto la documentazione all’avvio del percorso di fecondazione, dalla quale emerge l’indicazione della donna come “single”. Una circostanza, che secondo i giudici, costituisce prova certa della mancanza di volontà alla gestazione della compagna rimanendo “mero spettatore” del progetto procreativo scelto e avviato dalla compagna. Il tribunale ha quindi riconosciuto il diritto della madre alla costruzione di una famiglia monogenitoriale, nonostante la coppia convivesse nel periodo anteriore alla gestazione e la relazione sia finita nell’estate 2020, dopo la nascita del minore, quando il piccolo aveva due anni.
Non sono sufficienti le foto insieme, i messaggi affettuosi per dimostrare l’assunzione di responsabilità genitoriale verso il minore, tanto da fargli identificare l’adulto in una figura paterna. Secondo i giudici, serve un’assunzione di responsabilità, di condivisione delle decisioni con l’altro genitore, nel rispetto della bigenitorialità, della convivenza o comunque della vicinanza fisica con il minore, la condivisione delle spese per la sua crescita ed il sostegno fornito al minore in tutti i campi.