Diritti

Liste d’attesa nei centri Rems per autori di delitti con disturbi psichici, lo psichiatra: “Stanno aumentando i pazienti difficili”

Un aumento dei pazienti “difficili” da trattare, la diffusione delle droghe anche nei giovanissimi, molti traumi gravi, i tempi delle procedure per le dimissioni dei pazienti. Federico Boaron, direttore dell’Unità operativa di Psichiatria Forense dell’Usl di Bologna, ritiene che possano essere anche questi i motivi che portano a essere così lunghe le liste d’attesa per entrare in una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). Una opinione che arriva dal campo per lo specialista che è stato fino a qualche mese fa direttore della Rems “Casa degli Svizzeri”, dove però gli ingressi sono valutati da un gruppo di professionisti mensilmente.
Lei è stato dirigente una Rems – una delle prime in Italia – per otto anni – dal 2015 a oggi qual è stata l’evoluzione di queste strutture?
Le Rems sono strutture eterogenee, perché sono state sviluppate senza esperienze equivalenti – né in Italia né all’estero – cui ispirarsi. Dal momento che dalla promulgazione della Legge 81/14 all’apertura delle prime residenze sono passati solo 10 mesi, le diverse regioni hanno sviluppato Rems strutturalmente e “filosoficamente” differenti fra loro. Non posso dunque generalizzare, la mia risposta è riferita solo alla Rems di Bologna. Quando il 1° aprile del 2015 è stata inaugurata quella di Bologna chiaramente abbiamo dovuto affrontare alcune difficoltà. Inizialmente abbiamo dovuto comprendere i vincoli imposti dalla normativa e come formalizzare correttamente le richieste alla magistratura. Inoltre eravamo ovviamente molto preoccupati, e ci interrogavamo se fosse possibile sviluppare in sicurezza percorsi di cura per pazienti autori di reati a volte molto gravi. La prima attività esterna (nel giugno 2015 un paziente è uscito per la prima volta dalla Rems per andare ad un evento culturale di suo interesse accompagnato da un operatore) ha richiesto oltre un mese di organizzazione fra mille incertezze e apprensioni. Nel corso dei mesi e degli anni successivi, facendo fruttare l’esperienza che si andava maturando, siamo riusciti ad attivare moltissime attività extramurarie anche grazie a strumenti come il budget di salute; attività riabilitative, ricreative, di formazione e lavoro (con numerosi contratti di tirocinio formativo).
Parliamo di numeri…
Per rendere l’idea dei numeri di cui stiamo parlando, con una capienza di 14 posti letto, nel 2015 (aprile-dicembre) le licenze esterne a fini trattamentali sono state 108, nel 2018 sono state 799. Nel corso del tempo è stato possibile implementare anche numerose attività interne, sia individualizzate (pet therapy, italiano per stranieri…) che di gruppo (musica, teatro, scacchi con maestro federale, ecc..). Ovviamente tutte queste attività andavano a sommarsi ai trattamenti psichiatrici e psicoterapici (questi ultimi individuali per alcuni pazienti e di gruppo per tutti). È importante sottolineare come non fossero assolutamente previste – fin dal principio – né la contenzione fisica, né l’isolamento, né la contenzione farmacologica.
Al 31 ottobre erano ospiti in Rems 654 persone e in lista d’attesa ce ne erano 796. Una cifra che, stando al Garante delle persone private della libertà, è il doppio di coloro che erano ricoverati negli ospedali psichiatrici giudiziaria (Opg). Perché secondo la sua esperienza? C’è una spiegazione?
Nel primo decennio di questo millennio il numero complessivo degli internati in Opg oscillava attorno a 1300-1400 presenze. I numeri si sono abbassati più o meno in corrispondenza della promulgazione della Legge 81/14. Quindi i numeri di cui si sta parlando oggi sono sostanzialmente in linea con lo storico. Una recente ricerca di Zuffranieri e Zanalda evidenzia come il numero delle nuove misure di sicurezza detentive abbia raggiunto un picco nel 2010 per poi decrescere gradualmente. Pertanto, controintuitivamente, l’aumento del numero dei pazienti in misura detentiva non sembra derivare da un aumento delle misure di sicurezza detentive annualmente disposte dalla magistratura. Dunque le problematiche relative alla lista di attesa sono da leggersi come un “accumularsi” di pazienti in misura detentiva o in attesa di essa. I motivi di questo non sono facili da individuare, ma posso probabilmente formulare alcune ipotesi.
Quali ipotesi?
Certamente stanno aumentando i pazienti “difficili” da trattare anche nei contesti giudiziari: con la sentenza “Raso” (Cassazione, SS.UU sentenza 9163/2005) i disturbi di personalità possono essere considerati una causa idonea ad escludere o diminuire notevolmente la capacità di intendere e di volere; l’ampia diffusione di sostanze come cocaina e cannabis ad altissimo tenore di THC anche nei giovanissimi; la presenza sempre più numerosa di persone che hanno alle proprie spalle gravissime esperienze traumatiche. Tutti questi fattori, spesso concomitanti nel medesimo paziente, determinano frequentemente quadri clinici caratterizzati da impulsività con gravi intemperanze comportamentali, che ovviamente ostacolano la dimissione. Inoltre la risposta alle terapie farmacologiche è a volte parziale o addirittura assente, ed anche sul piano psicoterapeutico e riabilitativo richiedono un lavoro più lungo e difficile. Non dimentichiamo poi che la presa in carico territoriale dei pazienti psichiatrico giudiziari richiede elevate risorse (e, almeno auspicabilmente, competenze specifiche) e che le dimissioni sono anche determinate anche dai tempi dei procedimenti giudiziari (non dimentichiamo che è il magistrato che, revocando la misura di sicurezza detentiva, dispone la “dimissione” dalla Rems). Probabilmente questi fattori contribuiscono a rallentare l’effettiva dimissione dei pazienti, determinando di conseguenza un “accumulo” di pazienti a monte, nelle liste di attesa.
Attualmente le persone vengono ospitate nelle Rems in base a un ordine cronologico, per cui può capitare che trovi posto chi ha una situazione meno grave o ha commesso un reato meno grave rispetto a chi è in lista d’attesa. C’è una riflessione da fare su questa procedura?
Nella Regione Emilia-Romagna le cose funzionano diversamente. Mensilmente si riunisce un gruppo regionale di professionisti della salute mentale esperti nei percorsi di cura dei pazienti forensi che pondera la lista di attesa secondo i parametri individuati dalla Conferenza Stato-Regioni. In particolare i criteri di inappropriata collocazione (ad esempio in attesa della Rems in carcere o in Servizio psichiatrico di diagnosi e cura – Spdc), caratteristiche del paziente (ad esempio un paziente a maggior rischio, a causa del disturbo psichiatrico, di commettere nuovi reati) e le realistiche possibilità di implementare soluzioni assistenziali alternative alla Rems hanno un peso rilevante nella gestione delle priorità fra i pazienti in lista di attesa.
Cosa si può fare per migliorare quella, che nelle sue imperfezioni, è considerata una legge di civiltà?
Sì può fare ancora molto. Anzitutto andrebbero chiariti a livello legislativo alcuni aspetti fondamentali: il più urgente è a quali misure siano sottoposte le persone in lista di attesa, dove debbano essere realisticamente collocate (ad esempio è evidente che non debbano essere collocate in Spdc, se non hanno clinicamente bisogno di cure urgenti in ambiente di ricovero). Un altro aspetto che meriterebbe una riflessione a livello legislativo riguarda le misure di sicurezza detentive “provvisorie”: se debbano o meno accedere alle Rems, o se al contrario sia utile collocarle in strutture dedicate (che oggi non esistono) o ancora nelle articolazioni per la tutela della salute mentale in carcere. Andrebbero implementati criteri univoci e condivisi a livello nazionale per la gestione delle priorità nelle liste di attesa.
Quali criteri?
Tutte le Rems dovrebbero avere una adeguata dotazione di personale, paragonabile a quella dei medium secure mental health services britannici, che hanno equipe di almeno due operatori per ogni paziente (quindi una equipe di almeno 30 operatori per una Rems da 15 posti letto). Dal momento che una piccola percentuale di pazienti (probabilmente attorno al 5-10%) ha alterazioni del comportamento difficilmente gestibili nelle attuali Rems (con rischi per il personale e per gli altri degenti) sarebbe utile a livello nazionale avere un numero esiguo di strutture con un livello di sicurezza più elevato. I percorsi di cura dei pazienti in dimissione – quasi sempre alla dimissione viene applicata la misura di sicurezza della libertà vigilata – dovrebbero avere dei fondi dedicati per almeno due anni, in modo da non gravare sui bilanci dei dipartimenti di salute mentale. Le Ausl dovrebbero implementare unità operative di psichiatria forense, per supportare i centri di salute mentale nello sviluppo dei percorsi di cura dei pazienti autori di reato. Dovrebbero essere messe a disposizione risorse e formazione per trattamenti specifici; ad esempio gruppi per la gestione dei comportamenti impulsivi o dell’aggressività; psicoterapeuti con formazione specifica sul trauma e sui disturbi di personalità; progetti etno-psichiatrici dedicati ai migranti. Progetti per l’identificazione precoce e la presa in carico di adolescenti con comportamenti a rischio (intervento di prevenzione). Rivedere e rendere omogenei a livello nazionale i criteri con cui i periti valutano capacità di intendere e volere e pericolosità sociale. Non affronto qui il tema delle politiche di prevenzione dell’uso di sostanze stupefacenti, tema molto complesso e di grandissima rilevanza anche all’interno delle Rems.
Mi racconta come e quanto può aver aiutato un paziente la permanenza in Rems?
La permanenza in Rems costituisce spesso la prima occasione in cui il paziente assume una terapia regolarmente, accede ad interventi psicoterapeutici e riabilitativi e non ha occasione di assumere sostanze d’abuso. Fra l’altro i tempi di permanenza – non certo brevi come quelli degli Spdc – permettono l’ottimizzazione della terapie farmacologiche in modo da massimizzarne l’efficacia e ridurre al minimo gli effetti collaterali. Questi fattori convergenti possono determinare un netto miglioramento clinico, che favorisce la consapevolezza di malattia e del bisogno di cure: un circolo virtuoso. Se aggiungiamo a questo la possibilità di reintegrarsi nel modo del lavoro tramite strumenti dedicati (Individual Placement and Support, tirocini formativi, ecc…) possiamo ottenere in un numero significativo di casi risultati davvero straordinari.
Come è stata nella sua esperienza la collaborazione con magistrati?
C’è stata da subito una buona intesa, ulteriormente migliorata negli anni grazie all’aumentare della comprensione dei reciproci punti di vista. Stiamo inoltre sviluppando un protocollo di collaborazione fra magistratura, periti e Dipartimento di salute mentale.