Pagelle con giudizi simili a quelli che si davano alle medie: “Ottimo“, “discreto“, “buono“, “non positivo“, “negativo“. Voti che si basano anche sul giudizio espresso dagli avvocati. E che in caso di una bocciatura confermata due volte portano il magistrato a essere “dispensato dal servizio“, cioè licenziato. Arriva in Consiglio dei ministri la disciplina del nuovo “fascicolo del magistrato” stilata dalla commissione creata in via Arenula dal ministro Carlo Nordio e guidata dal consigliere della Corte di Appello di Milano Claudio Maria Galoppi, ex consigliere giuridico della ministra Elisabetta Casellati. Norme che esercitano la delega approvata dal Parlamento a giugno 2022 ai tempi in cui la Guardasigilli era Marta Cartabia. E che confermano l’approccio punitivo nei confronti dei magistrati in un momento in cui i rapporti tra l’esecutivo di Giorgia Meloni e il mondo delle toghe sono ai minimi storici, soprattutto dopo le esternazioni di Guido Crosetto. Ma c’è di più: al tavolo del pre-Cdm, come spiegava l’Ansa, è emersa anche l’ipotesi – assente nelle bozze – di imporre test psico-attitudinali per l’ingresso in magistratura, sul modello di quelli previsti per polizia e forze dell’ordine. Una soluzione che aprirebbe per la prima volta la strada a meccanismi di selezione diversi dalla competenza tecnica, con evidenti rischi per l’autonomia e l’indipendenza delle toghe. Per il momento, però, l’ipotesi è rimasta tale nel senso che non è stata approvata dal consiglio dei ministri.
La punizione delle toghe: trasformati in burocrati – La legge delega sull’ordinamento giudiziario è anche più severa rispetto alle bozze circolate in estate, che avevano infastidito sia Forza Italia che Enrico Costa di Azione, autore dell’emendamento che aveva introdotto il fascicolo dei magistrati nel disegno di legge delega. In questo senso il varo delle due norme rappresenta il modo con cui la maggioranza cerca di placare il pressing di Forza Italia: dopo le dichiarazioni di Crosetto, infatti, il partito fondato da Silvio Berlusconi è tornato a incalzare il governo sulla riforma della giustizia costituzionale, cioè la separazione delle carriere. In questo delicatissimo gioco politico, dunque, Meloni vara una riforma che per i magistrati è una ritorsione: li obbliga a essere valutati solo in base all’esito dei loro provvedimenti, indipendentemente da giudizi qualitativi, per giunta sulla base anche del voto degli avvocati difensori. L’effetto, secondo quello che aveva dichiarato il pm antimafia Nino Di Matteo in un’intervista al Fatto, sarà quello di “burocratizzare la magistratura, di gerarchizzare i singoli magistrati, di renderli attenti soltanto ai numeri e alle statistiche piuttosto che a rendere giustizia“.
Il voto degli avvocati – In pratica, come prevede il decreto il cui contenuto è stato anticipato dal quotidiano Il Messaggero, nel fascicolo che sarà “istituito presso il Csm” ci saranno i dati relativi alla carriera del magistrato. Si parte dal “lavoro svolto, in relazione ad ogni anno di attività, anche comparata con quella dei magistrati che svolgono la medesima funzione nel medesimo ufficio e con gli standard medi di definizione dei procedimenti”, fino al ” rispetto o meno dei termini previsti per il compimento degli atti” e “l’esito delle richieste o dei provvedimenti resi nelle fasi e nei gradi successivi”. Sulla base di tutto questo ci saranno le valutazioni, con promozioni e bocciature, che arrivano ogni quattro anni a partire dalla data di nomina fino alla settima valutazione, dunque dopo 28 anni di carriera. Il primo step della valutazione sarà affidato alle relazioni dei Consigli giudiziari, gli organi territoriali del Csm in cui il provvedimento introduce la possibilità di voto degli avvocati: in pratica il Consiglio dell’Ordine del foro locale può segnalare “fatti specifici incidenti in senso positivo o negativo sulla professionalità, con particolare riguardo alle situazioni eventuali concrete e oggettive di esercizio non indipendente della funzione e ai comportamenti che denotino evidente mancanza di equilibrio o di preparazione giuridica”. Il provvedimento, tra l’altro, prevede che il Csm acquisisca il parere degli Ordini degli avvocati anche “ai fini del conferimento degli incarichi direttivi”: i procuratori capo saranno decisi sulla base pure del giudizio dei difensori. Dunque lo stesso avvocato che al mattino ha “difeso il suo assistito in un processo di omicidio o strage, il pomeriggio, al Consiglio giudiziario” verrebbe chiamato “a rendere il parere per la valutazione di professionalità di chi ha rappresentato l’accusa in quel processo o di chi ha emesso la sentenza“, spiegava sempre Di Matteo.
Il rischio licenziamento – Le conseguenze delle valutazioni non cambiano: se il voto del magistrato è “non positivo“, il giudizio viene ripetuto dopo un anno. E se è “negativo”? Si va dall’obbligo di partecipazione a “un corso di riqualificazione professionale” fino all’assegnazione del magistrato “a una diversa funzione” nello stesso ufficio o all'”esclusione da incarichi direttivi“. L’esame si ripete dopo due anni e nel frattempo il giudice perde il “diritto all’aumento periodico di stipendio”. Se il Csm conferma il giudizio negativo, il magistrato è “dispensato dal servizio“. A cambiare, invece sono i criteri che l’organo di palazzo dei Marescialli dovrà usare nella valutazione della “capacità” di giudici e pm. Oltre “alla preparazione giuridica e al relativo grado di aggiornamento” e “al possesso delle tecniche di argomentazione e di indagine”, infatti, ne compare uno nuovo: la “sussistenza di gravi anomalie concernenti l’esito degli affari nelle successive fasi e nei gradi del procedimento”. In sostanza, d’ora in poi rischierà una valutazione negativa un giudice le cui sentenze vengano riformate “troppe volte” in Appello o in Cassazione, o un pm le cui richieste per “troppe volte” non vengano accolte dal giudice.
La valutazione sull’esito dei provvedimenti – Ma quand’è che si può parlare di “troppe volte”? Qui lo schema di decreto cambia rispetto alla prima bozza partorita dalla Commissione. Nel vecchio testo, infatti, si precisava che il rigetto delle richieste di un pm o la riforma delle decisioni di un giudice sono “indice di grave anomalia” soltanto “ove assumano (…) carattere di marcata preponderanza e di frequenza rispetto al complesso degli affari definiti dal magistrato”. Una postilla che aveva fatto imbestialire Costa: “Bisognerà sballare almeno sessanta processi su cento”, si sfogava, denunciando un tentativo di “neutralizzare gli effetti della riforma”. Un grido di dolore ascoltato dal governo: il provvedimento portato in Cdm, infatti, afferma che si può parlare di grave anomalia “quando le ragioni del rigetto, della riforma o dell’annullamento sono in se stesse di particolare gravità ovvero quando il rigetto, la riforma o l’annullamento assumono carattere significativo rispetto al complesso degli affari definiti dal magistrato”. Non serve più, quindi, che il magistrato valutato sia stato smentito dai colleghi in un numero “preponderante” di casi: basta che sia “significativo”. Ma può essere persino un caso solo, se le ragioni con cui gli viene dato torto vengono ritenute “di particolare gravità”. E chi decide sul significato di queste espressioni? Il Csm, un organo che – vale la pena ricordarlo – è per un terzo di nomina politica. Costa però non è comunque soddisfatto: “Le bocciature si limiteranno a pochissimi casi-limite“, dice al Messaggero. Un sospetto che emerge anche dentro Forza Italia, da cui emerge l’opinione che “sarebbe stato meglio intervenire fin dai primi, macroscopici errori dei giudici”.
Stretta ai magistrati fuori ruolo – Ma il Cdm di oggi ha approvato anche un secondo decreto sulla giustizia che modifica le norme sul collocamento fuori ruolo dei magistrati. Tra le nuove disposizioni quella che pone un termine minimo di dieci anni “di effettivo esercizio della giurisdizione” prima di ottenere un incarico londano da procure e tribunali. E poi “fatti salvi incarichi presso istituzioni di particolare rilievo, sono necessari tre anni di esercizio prima di un nuovo collocamento fuori ruolo se il primo incarico ha avuto una durata superiore a cinque anni”. Un modo per evitare i casi di magistrati che non indossano mai la toga per quasi tutta la loro carriera. Viene ridotto il numero massimo di giudici e pm collocati fuori ruolo: 180 per la magistratura ordinaria. E di questi solo 40 potranno essere assegnati a organi diversi dal Ministero della giustizia, degli Esteri, Csm e altri organi costituzionali. Viene poi introdotto, come elemento preclusivo, la scopertura dell’ufficio di provenienza, rimettendone la concreta determinazione della percentuale di scopertura rilevante agli organi di autogoverno. In pratica la toga chiamata a svolgere funzioni fuori dal palazzo di giustizia potrebbe invece essere trattenuta se presta servizio in un ufficio giudiziario in carenza di organico. Il decreto poi determina i limiti di permanenza lontano dagli uffici, che in via generale vengono ridotti a 7 anni, salvo che per gli incarichi particolarmente rilevanti, per i quali continua ad operare il termine di 10 anni. Questo limite non si applica agli incarichi giurisdizionali all’estero. Altri paletti scattano nel caso in cui il magistrato sia impegnato nella trattazione di procedimenti penali per gravi reati in avanzato stato di istruttoria, rispetto ai quali il suo allontanamento possa incidere gravemente sui tempi di definizione. Sarà però il Csm a valutare, tenendo conto delle esigenze dell’ufficio di provenienza e dell’interesse dell’amministrazione di appartenenza, la possibilità di concedere il collocamento fuori ruolo in ragione del rilievo costituzionale dell’organo conferente nonché per la natura internazionale dell’incarico. Le nuove disposizioni, secondo una norma transitoria inserita nel decreto, si applicheranno agli incarichi conferiti o autorizzati dopo l’entrata in vigore del provvedimento. Per chi è già stato fuori ruolo e viene ricollocato fuori ruolo dopo l’entrata in vigore del decreto, si prevede che si applichino i nuovi limiti temporali, salvo gli incarichi presso gli organi costituzionali.