Fare chiarezza attraverso i fatti, gli accordi internazionali e la documentazione ufficiale: è questo l’obiettivo dal quale parte il nuovo libro della Relatrice speciale delle Nazioni Unite per i Territori palestinesi occupati, Francesca Albanese. Il titolo è tutt’altro che ambiguo: ‘J’Accuse’ (editore Fuoriscena, 16 euro) come la più nota lettera aperta di Émile Zola nell’ambito dell’Affare Dreyfus. Anche quella di Albanese è una denuncia, documentata, sulla gestione israeliana dei rapporti col popolo palestinese. Partendo dal racconto (e dalla ferma condanna) dell’attacco di Hamas del 7 ottobre, Albanese aiuta a comprendere come si sia arrivati all’ennesima escalation di violenza tra israeliani e palestinesi analizzando la storia del conflitto, degli accordi mancati e delle loro violazioni. Ilfattoquotidiano.it ne pubblica in anteprima la prefazione.
di Francesca Albanese
«La verità prima di tutto» è l’incipit del più famoso J’Accuse della storia moderna, la lettera aperta di Émile Zola al presidente della Repubblica francese, apparsa il 13 gennaio 1898 in prima pagina sul quotidiano di Parigi «L’Aurore». La verità prima di tutto è anche ciò che ispira questo nuovo J’Accuse, costruito a partire da fatti accertati, documentati e incontestabili, affinché la forza del diritto internazionale possa prevalere sull’uso indiscriminato della forza.
L’inferno di oggi non può oscurare la violenza degli ultimi decenni. Per affrontare il presente, è determinante capire cosa viene prima, cosa c’è dietro. Questo non significa in nessun modo giustificare o minimizzare gli atroci crimini contro i civili israeliani del 7 ottobre 2023, e non mi stancherò mai di asserirlo in modo fermo e inconfutabile. Se vogliamo però capire quello che sta succedendo dobbiamo affrontare quell’orrore nel contesto di ciò che lo ha preceduto. Sto parlando della storia di un’occupazione illegale che va avanti da oltre mezzo secolo, dopo altri decenni di abusi inflitti al popolo palestinese.
Bisogna capire che la privazione della libertà dei palestinesi, in molti modi e forme, è un elemento centrale dell’occupazione israeliana. Questo regime esiste per garantire la sicurezza delle colonie israeliane che sono state stabilite nel territorio occupato sin dall’indomani dell’occupazione, quando le Nazioni Unite hanno cominciato a richiedere alle truppe israeliane di ritirarsi. Non solo l’occupazione militare non si è interrotta, essa è divenuta lo strumento per creare e proteggere le colonie illegali per soli ebrei. Questi ultimi sottostanno alla legge civile, mentre ai palestinesi si applica la legge militare: ecco il dualismo legale che costituisce l’essenza dell’apartheid israeliano.
In questo contesto, cinque milioni di palestinesi nei territori occupati sottostanno da cinquantasei anni a un regime normativo draconiano, fatto di leggi scritte da militari (israeliani) e applicate da soldati, incluse le corti militari che sono le principali sedi di «giustizia» a disposizione dei palestinesi. L’esistenza delle autorità palestinesi dagli anni degli Accordi di Oslo non ha alterato questa realtà strutturale. Gaza è la forma più estrema di questa privazione, che si manifesta nel blocco terrestre, aereo e navale della Striscia che dal 2007 ha intrappolato oltre due milioni di persone, metà delle quali non hanno nemmeno diciotto anni.
Ai palestinesi di Gaza è impedito di lasciare la Striscia se non in occasioni eccezionali, come la necessità di cure mediche per malattie gravi, per esempio cancro e leucemia, che in quella zona economicamente depressa e strutturalmente impoverita non sono curabili. I palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme Est rischiano costantemente di essere arrestati. Succede ai contadini che lavorano la terra, ai bambini che vanno a scuola nelle aree militari dichiarate «chiuse», ai leader politici che esercitano il loro mandato e alla società civile che difende i diritti umani. Questa criminalizzazione su vasta scala priva i palestinesi del diritto di muoversi liberamente, di lavorare, di riunirsi pacificamente, di esprimere la propria identità, la propria cultura, le proprie opinioni, di proseguire gli studi, di vivere appieno la propria vita economica, sociale e politica. Il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese rappresenta il primo obiettivo che la repressione colpisce.
Gli arresti di massa sono eventi ricorrenti. Le incursioni notturne che ho potuto documentare sono diventate una tattica comune per arrestare o semplicemente per intimidire e terrorizzare i palestinesi, anche i più piccoli tra loro. La modalità è brutale: decine di soldati armati irrompono nei villaggi, entrano nelle case sfondando le porte e mettendo a soqquadro le abitazioni, sequestrano proprietà ed effettuano arresti senza un regolare mandato. Questo accade da anni ormai. Secondo le testimonianze dei soldati israeliani che dopo il servizio militare hanno deciso di «rompere il silenzio», fare irruzione nelle mura domestiche delle famiglie palestinesi e terrorizzare i residenti serve a «far sentire la loro presenza», a terrorizzare i palestinesi e a farli sentire sottomessi. Israele non fornisce alcun risarcimento alle persone arrestate arbitrariamente, né per i gravi danni arrecati alle proprietà in seguito alle incursioni.
I bambini non sono estranei a questo tipo di rappresaglia, ed è ciò che ho potuto documentare nel mio ultimo rapporto (ottobre 2023). Sono oltre tredicimila i bambini dai dodici anni in su (ma a volte anche di cinque anni) che hanno subito arresti arbitrari, maltrattamenti, procedimenti giudiziari in tribunali militari, con conseguenti traumi per loro e per le loro famiglie. I bambini palestinesi detenuti sono spesso costretti a diventare informatori o collaboratori. Le procedure di «giustizia militare minorile» introdotte nel 2009 non hanno alterato la natura illegale del sistema detentivo applicato dalle forze d’occupazione israeliane: l’espressione «tribunale militare minorile» continua a essere un ossimoro. Alle madri e ai padri palestinesi, abituati alle persecuzioni israeliane, interessa una sola cosa: mettere in salvo i propri figli. A volte succede di riuscire a portarli a casa dopo mesi o anni di arresti arbitrari, a volte, a tornare, sono creature completamente trasformate, svuotate, morte dentro, ma almeno ritornano. Almeno non muoiono in carcere, col rischio per i familiari di non riavere nemmeno i loro corpi: questa è un’altra delle crudeli pratiche dell’occupazione israeliana, negare ai palestinesi la degna sepoltura dei propri cari, che vengono invece o ammassati in celle frigorifero, o seppelliti nel cosiddetto «cimitero dei numeri» controllato dall’esercito israeliano.
L’oppressione e i traumi subiti da generazioni di palestinesi, sin dall’infanzia (i bambini rappresentano metà della popolazione sotto occupazione israeliana), sono una macchia unica per la comunità internazionale. Israele, nonostante i suoi obblighi in quanto potenza occupante, priva i palestinesi e i loro figli dei diritti umani fondamentali. L’inquadramento da parte di Israele dei palestinesi come «scudi umani» o «terroristi» per giustificare la violenza contro di loro e contro i loro figli è un fatto documentato e rappresenta una realtà profondamente disumanizzante.
Dobbiamo comprendere l’impatto devastante dell’occupazione israeliana e della presenza coloniale in continua espansione su intere generazioni di bambini palestinesi. Ho potuto documentare in dettaglio le esperienze quotidiane di violenza dei bambini attraverso la confisca delle terre di famiglia e l’espropriazione delle risorse, la separazione delle comunità, la distruzione delle case e dei mezzi di sussistenza. Generazioni di bambini palestinesi, sia nella Striscia di Gaza sia nelle enclave della Cisgiordania o a Gerusalemme Est annessa, hanno visto le loro vite ridotte al minimo. Sono semplicemente considerati sacrificabili.
È indispensabile che la comunità internazionale utilizzi tutte le misure previste dalla Carta delle Nazioni Unite per porre immediatamente fine all’occupazione illegale di Israele in Cisgiordania, Gerusalemme Est e Gaza, per sanzionare i suoi atti illeciti a livello internazionale, per perseguire tutti i crimini internazionali commessi da tutti gli attori nel territorio palestinese occupato e istituire una task force il cui obiettivo sia quello di smantellare l’occupazione coloniale israeliana come condizione preliminare per la pace nella regione.
Questo non doveva essere un instant book, lo è diventato, inevitabilmente, dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre e dopo la guerra scatenata da Israele sulla Striscia di Gaza dalle prime ore di quel tragico giorno che nessuno potrà dimenticare. Fino a quel momento l’attenzione internazionale su Israele e sui territori palestinesi occupati era praticamente prossima allo zero, ora rappresenta la notizia principale in tutti i media internazionali.
Il mio auspicio è che queste pagine, attraverso la documentazione che mettono a disposizione dei lettori e a partire da quei principi del diritto internazionale che faticosamente abbiamo costruito, possano contribuire a mettere un po’ di ordine e aiutarci a prendere una posizione che non sia solo una bandiera da alzare.